«Pape
Satàn, pape Satàn aleppe!»,
cominciò
Pluto con la voce chioccia;
e
quel savio gentil, che tutto seppe,
disse
per confortarmi: «Non ti noccia
la
tua paura; ché, poder ch'elli abbia,
non
ci torrà lo scender questa roccia.»
(Dante
Alighieri, Divina Commedia - Inferno, VII)
Nel
IV cerchio dell'Inferno, il maestro Dante punisce scenograficamente,
presentandoli, due gravi peccati dell'umanità': l'avarizia e la prodigalità.
L'una
intesa come arida carenza-esigente, egoistica sete disperata e
agognante desiderio di potere; l'altra, all'opposto, e' la
caratteristica di chi spreca, di chi sperpera.
Entrambe
le categorie condividono una assoluta incapacità gestionale, il
peccato di non saper fruire i propri talenti, e la colpa di
lasciarsene prevaricare in una spinta ritorsiva, che toglie il senso e
uccide il piacere.
Rimane,
pronta, la violenta ritorsione sugli altri attraverso l'offesa. In un
triste inutile cammino che nella sua infinita', non dona forza, ma
ruba vita.
L'
inarrestabile faticosa marcia che spingendo, trascina nell'inutile.
La
punizione descritta consiste nel forzoso reiterarsi del reciproco
insulto tra rei dannati, che percorrono simmetricamente strade
analoghe - un gruppo da un lato, un gruppo da un altro - fino a
reincontrarsi a fine percorso, gravati da inutili pesi sul petto.
Strade
che raggiungono il loro apice solo nel punto di riinizio verso la
direzione opposta.
Una
estensione del mito di Sisifo: non si espone più soltanto l'individuo che, per conseguire il proprio falso valore e'
costretto ad attuare un cammino faticoso e inutile, al prezzo di
infiniti sforzi inappagabili.
Emerge
la dimensione sociale: i peccatori, divisi in due schiere,
nell'illusione di seguire percorsi diversi (addirittura
diametralmente opposti) finiscono per incontrarsi e poi scontrarsi:
si offendono, e si accusano vicendevolmente. Per poi ripartire, in un
inizio che non ha mai subito davvero interruzione.
..Pape
satan..
Osservo
l'incarnazione del Contrappasso.
Accade,
inesorabile, e preciso. E si abbatte su chi, subendo, non coglie, e
logorando se stesso inveisce contro il Fato, e contro l'umanità
tutta.
Lacrime
di stupore e grida di incomprensione.
Vagiti
infernali dell'eterno infantile.
Accadimento
esatto in situazione!
La
mancanza verso se stessi genera l'errore, la sua ulteriore ricaduta
nel sociale definisce il reato.
La
mancata evoluzione personale, l'Ignoranza, produce la violenta
eruzione infantile su chi sta d'intorno, danneggiandolo.
Così
la donna che non sviluppa le proprie attitudini, lasciando in letargo
il proprio potenziale. Una pigrizia che non giova a se stessa ne' ad
alcun altro. Assume piuttosto il ruolo di mamma senza averne davvero
il piacere.
Le voci, quante voci le hanno Trasmesso la utilità di
quel ruolo. La sua eternità, la sua inviolabilità. E bisogna
sbrigarsi, sennò poi si sfiorisce.... E si perde l'occasione... Pensa
alle donne che non possono averne! Così la madre prima di lei, e la
nonna prima ancora. E l'amica, e la società tutta.. Beh, quasi tutta.
Ella
svilisce la propria persona rinunciando al suo modo per ottenere un
riconoscimento facile, gratuito, garantito dalla società.
Non
proprio gratuito.
Col
tempo, però, il bambino vuole incontrare il mondo, fare scoperte,
toccare con i suoi occhi ciò che fa nuovo, crescere e
diventare adulto. Se questo, però, gli viene concesso... La "Mamma"
che fa? Il suo ruolo finisce, e si ritrova costretta a cambiare.
Ma come?
Non
ha curato se stessa e non ha sviluppato strumenti... Iniziare ora, noooo... E' troppo tardi, eh!!! ... The show must go on: si può forzare
la mano, e congelare quel tipo di rappresentazione in modo perverso e
alienante... Finché morte, che così li unisce, non li separi: la
mamma (l'errore) con il suo bambino, stupidamente compiacente (il
reato).
Magistralmente
M.R. descrive la madre
antibiotica. Suggerisco un serissimo approfondimento a chi,
tra donne e uomini, vuole incontrare Persone. Almeno la finiamo di
parlare di "quote rosa" e di altre menate filo e
antifemministe!!
Un
figlio cresciuto da una madre bambina (l'errore) come potrà divenire
persona (il reato)? Cercherà a sua volta la rozza scorciatoia
illusoria con devastanti ricadute nel sociale...
O
la collaboratrice del capo, che prostituisce (non sempre in senso
metaforico) la propria persona per ottenere una posizione, un ruolo
di prestigio. E mantenerlo. Mancando pero' le competenze necessarie,
quelle aziendali, di li' in poi le scelte adottate dal capo voglioso
(persona evoluta?) condurranno a piani sbagliati. E a conseguenze
fallimentari.
Per il capo, certo; per la collaboratrice (l'errore e
l'errore); ma anche per tutti coloro che lavorano nell'azienda (il
reato).
Milan
Kundera definisce l'agire degli uomini la leggerezza
dell'essere per il suo accadere "spontaneo", non
programmabile. E tale immediatezza assume, nei suoi romanzi, le tinte
di una pesantezza estrema, insostenibile, a causa delle
conseguenze provocate.
Accadere
ritenuto necessario (grosso, grossissimo errore. Reato esso
stesso!!)
Questa
storia, in realtà, ha un titolo diverso che la rimanda
all'intollerabile gravame dell'essere ignorante.
Una sana evoluzione
contrasta la necessità del divenire, aprendo alla fluidità
SOSTENIBILISSIMA dell'essere. Ci vuole pazienza e molta attenzione,
la volontà e l'umiltà di accogliere e saper leggere - ovvio, ma né
facile né scontato - le immagini che formuliamo costantemente in
noi, momento dopo momento... Semprissimo (M.R., certo, chi altri?) !
Immagini di monito e di supporto che, naturalmente, guidano il nostro
cammino.
Il
buio, il dolore, la claustrofobica agonia della minorità denunciano
non l'essere ma un suo modo distorto, declinazione perversa.
Aristotele,
con cipiglio, punta contro il suo dito indice.*
Dell'essere
si parla in tanti modi, è vero, ma son pochi quelli di attuarlo: in
sintonia con la natura, o contro di essa. Nel fiume della vita, tra le
sue correnti, nel flusso dinamico del possibile, o contro di essa,
nel prestabilito, nel già detto.
La Trasmissione che fa dolore.
Avari
e prodighi: peccatori contro la propria persona e contro gli altri.
Violenti. Nello sfondo un'aria conosciuta: "a chi ha sara' dato
e a chi non ha sara' tolto quel poco che ha".
La parabola dei
talenti ripropone l'importanza della disponibilità a fare,
dell'impegno personale. Il padrone punisce colui che, per paura, non ha
agito e non ha prodotto, quindi, valore.
Quel
poco che aveva, quella virtù, quel potenziale, quelle capacita' non
investite finiscono per sfumare, vengono tolte, sono perse. Se tu hai
(le capacita') e non fai (valore), non hai più diritto di avere,
quindi ti vien tolto, perdi tutto, ti spendi nell'inutile vagheggio
generale, perdendo te stesso e chi ti circonda.
Avari
e prodighi. Dante li colloca tra gli incontinenti, tra coloro che non
sanno dosare il valore di ciò che hanno e che potrebbero fare.
Essi
accumulano senza dare, e sperperano senza realizzare.
Alla stanchezza
dell'azione non consegue la soddisfazione del risultato raggiunto, ma
la sofferenza della ripetizione infinita. Nulla ha più senso... Ci si
affanna, si percorre tutta la strada, ma poi si ricomincia, sia pure
nella direzione opposta.
Quando finalmente si incontra l'altro, che
vive, in fondo, la stessa condizione, gli si sputano contro sentenze.
Immagini orribili. Un sogno di morte.
La
violenza dell'ignoranza, di chi non sa e non può capire.
Niccolo'
Cusano, nel De Docta Ignoranza, ripercorre la via socratica del
sapere di non sapere, intesa come la più alta forma di conoscenza:
solo colui che e' conscio della propria ignoranza, dei propri limiti,
e' poi in grado di tendere verso il loro superamento. E magari si
adopera per farlo.
Con umiltà e pazienza.
Tanta umiltà e tanta
pazienza.
Scivolando sui sassi, ferendosi anche, ma deciso a
proseguire verso un cambiamento vitale.
Colui
che, invece, e' assolutamente ignorante non può farlo, perché non ne
coglie il senso.
Per lui, in fondo, un sogno è solo un
sogno...Perché dare importanza a quelle immagini? Esse vengono, un pò incuriosiscono, ma poi svaniscono. In tanti neanche le vedono più...
E
continuerà a imprecare contro gli altri mentre percorre arrancando
quel percorso vano.
*
Aristotele, nella Metafisica, distingue l'individuabilita'
dell'essere in quanto tale rispetto alle sue modalita' fenomeniche,
ai suoi modi di apparire. Così, ad esempio, dire che una rosa é
bella non esaurisce l'essenza stessa della rosa.