Il Mio Blog non vuole essere un monologo, ma un invito all'incontro: pertanto sono graditi i commenti e il succedersi degli scambi che ne conseguono.
Buona lettura!

mercoledì 27 dicembre 2017

Venticinque dicembre


Venticinque dicembre, un giorno di festa. 
Stamane erano quasi le nove quando son scesa per strada e l'ho sorpresa deserta. Le chiome degli alberi, allineati sul ciglio, sembravano ridacchiare contente, un pò smosse dal vento: arietta frizzante e un'esplosione di luce da quel cielo azzurro inondato di sole.

Ho camminato a passo spedito verso il mio appuntamento, nel silenzio del sorriso ambientale: io sola, la strada vuota e qualche pennuto a planare lassù, nel trasparente emisfero, sopra di me.

É raro poter respirare aria tanto leggera in questa città soffocata.

Palazzi vecchi e un pò sonnacchiosi, familiari e di strano conforto, mi danno il buon giorno mentre raggiungo silenziosa la sponda del fiume; ne seguo il percorso posando i miei passi tra le foglie invernali, alcune a riposo per terra, ed altre ancora aggrappate sui rami.  

 Ippocastani maestosi, fieri e gentili, da sempre omaggiano l'acqua che scorre briosa, chinandosi giù, verso la vita che, in veste animale, esplora percorrendo la riva e scivola via sulla superficie fangosa.
Intanto che radici ostinate venute su dalla terra, hanno conquistato lo spazio e aperto ferite sullo strato d'asfalto, obbligandomi al gioco già noto di allungate e saltelli.

Una bella città, senza il trucco pesante degli screzi diurni e degli sfregi ambientali. Un'occhiata agli spalti, tra la ruggine accesa delle poche foglie rimaste sui rami contorti, che scendono giù come ricci scomposti dalla nuca di una ragazza vivace.

L'acqua si muove veloce, sospinta da forze silenti e non viste, e mi carezza i pensieri, rendendoli finalmente leggeri. Li porta con sé, attraverso gli antichi archi del ponte di pietra, quel ponte che tutti chiamano "rotto".
Ferito, abbattuto, ricostruito, aggiustato, rifatto e poi lasciato così, legato alla terra da lunghi bracci di ferro, che come frecce vistose, denunciano l'ostinata potenza di chi, nell'acqua, non ci vuole proprio morire. 

 Quel ponte che ha vinto, alla fine, contro correnti ed ingrati alluvioni, contro la condanna impietosa del tempo. 
Dall'epoca antica, quell'arco, custodisce il connubio tra l'acqua e la terra, e non vuole mollare. 
Così rimane dov'è, ad insegnare un messaggio che trasfonde una bella speranza.

Mi soffermo a guardare i gabbiani, e volo con le ampie ali per qualche momento: c'è così tanto spazio lassù...

Costeggio palazzi che sanno di storia, giardini e fontane guizzanti e ricolme, incontro il tempio che è detto di Vesta e che forse, però, è stato fatto per Ercole (nel contenzioso prevalse comunque la Chiesa, che in tempi propizi lo ridusse a triste gazebo).

Vesta, custode prescelta del sacrale fuoco vitale, del calore domestico che mai dev'essere estinto; Ercole, il cui fuoco interiore forgiò immemorabili gesta, ed arrivò ad ottenere il diritto di passare da essere umano a divino.

Ed ecco gli opposti incontrarsi: il fuoco di Vesta e l'acqua di Ercole, l'eroe invitato da Giove al suo fianco dopo che una moglie gelosa, per smanie di ossessivo possesso, arrivò quasi ad ucciderlo nella mente e nel corpo. 

Uomini e dei, in un mondo fatto di ambrosia e di comportamenti meschini: racconti inventati per dire a noi stessi che, in fondo, va tutto bene così.

Ma oggi é davvero natale: di là dalla strada nemmeno un turista dei molti che, in ogni giornata si accodano in file estenuanti per onorare quello stupido rito nella fessura della grossa medaglia dal viso barbuto.
In passato, da quel foro, passava solo dell'acqua, ma da generazioni infinite si intrufolano mani arroganti, sostando sul bordo di pietra che diviene sempre più liso.

La crudele bugia degli adulti che inculca, sulla via dell'insulto, la certezza del fatto che al controllo supremo non si possa sfuggire, ed impone il giudizio: chi ha mentito nel corso della propria esistenza, sia pure per motivi di scarsa importanza, non potrà ritirare mai piú la mano dal terribile morso del mostro di pietra.  

Che mostro, in origine, di certo non era, ma solo l'effige di uno spirito acquatico, dedito ad accogliere l'acqua piovana per convogliarla altrimenti.

Eccolo l'uomo, consapevole della propria impotenza, spalancare la ruota multicolore e gonfiare il suo petto: camuffare il reale per sedurre chi é accanto, e poterne finalmente disporre.

Ecco l'eroe, che per finire all'Olimpo deve subire le prove piú ardue, fino a perdere tanto di sé, cosí come l'antico pilone del ponte rimasto senza compari.

Scivolano via questi sogni, e con essi va l'acqua veloce, sotto a quell'unico arco rimasto quaggiù, che mi invita a guardare al di lá...









giovedì 14 dicembre 2017

Dublin


E così mi ritrovo a inserire maglioni di lana in una valigia da stiva; un amico mi lascia ai voli internazionali di Fiumicino, e in tre ore i miei piedi si poggiano su terreno irlandese.

E chi lo avrebbe mai detto? Un vento freddo mi dá il benvenuto, e il nevischio mi gela il volto. Guardandomi intorno, la prima sensazione che provo é quella della calma, di una terra ordinata e pacata. 
Due colpi di dita sull' app appena installata e un taxi si ferma a pochi metri da me: é disastrato e il suo interno puzza di cipolla stracotta. Quell'uomo minuto dalla pelle rosea e gli occhi di vetro deve aver consumato da poco il suo pasto. Fuori fa freddo, che colpa puoi fargli? 
Ad ogni modo l'odore si tollera piú del gelo lá fuori...

Formulo una domanda in inglese intanto che osservo le case, che sfuggono via davanti ai miei occhi: una ripetizione costante di costruzioni basse e continue in pieno stile georgiano.
 I portoncini di ingresso sono di colori vivaci, uno diverso dall'altro. 
Il grigio del cielo abbraccia questo rosso mattone nelle sue sfumature, e la sensazione che provo é gradita. In sottofondo il chiacchiericcio allegro dell'uomo al volante.

Sono qui per lavoro, con un collega che non ho mai frequentato, e mi trovo in un luogo mai visto.
L'albergo e poi l'ufficio: una infinita riunione con personaggi del luogo, che si esprimono con suoni complessi alla velocità della luce... L'irlandese, mi confermano loro, é un inglese diverso, di origine celtica. Sostanzialmente, un'altra lingua.

Uno di loro sorride della mia confusione. Ha da poco superato i cinquanta, e a scuola, mi dice, non ha mai studiato l'inglese. 
 Sono curiosa di sentire quei suoni, ma la richiesta accende uno sguardo assassino sul volto del collega italiano, cosí non insisto... Peccato.

 Il palazzo in cui è sito l'ufficio é di tre piani e presenta decorazioni graziose; qui alcuni spazi sono in comune: la cucina attrezzata, i bagni e la sala riunione. 
Le temperature degli interni sono roventi, mentre fuori si gela. Guai ad aprire una finestra... Vetrate enormi che consentono alla luce grigia del giorno di illuminare gli ambienti.

Moquette ovunque, foltissima e avvolgente, e spesse tende pesanti a custodire il calore.

Bella città, mi dico, piena di parchi, pulita, e ben ordinata. Ovunque mi giri vedo portoncini robusti dai mille colori accesissimi, e pub sempre aperti, dalle caratteristiche insegne. 
Questo luogo sa di Altro, sembra sospeso nel tempo, e trasmette un'intimità nuova. 

La sera luci soffuse colorano case e locali, facendo brillare l'acqua del fiume, che scorre gentile nel suo letto, attraversando una miriade di ponti leggeri. Qui i pub sono ristoranti a tutti gli effetti, e sono davvero accoglienti, con le loro luci basse, i musicisti, i ragazzi un po' brilli e quel brusio di gente connessa. 

Si beve e si mangia, seduti all'interno, le cameriere si scusano chiedendo di saldare il conto in via preventiva, a consegna avvenuta: hanno molto da fare, sommerse da piatti stracolmi di vivande locali. Non posso resistere, e nonostante sia tardi decido per lo spezzatino di agnello stufato: in guazzetto con vegetali multicolori. La sommitá é cosparsa di anelli verdastri che mi sembrano olive... Il primo che mordo si rivela subito per quello che é: un peperoncino potentissimo, aromatico e davvero crudele. Nel complesso é davvero un piatto buonissimo, tenero e delicato. 

Svaporo la mia pinta di birra fruttata, intanto che provo a filmare il locale: stiamo cenando al The Church, una chiesa, appunto, adibita a locale all'inizio del secolo. A parte i tavolini, le luci calde ed il palco di legno su cui esibiscono gli artisti, siamo proprio in una chiesa dalla pianta a croce latina, con le sue finestre colorate, il rosone ed i bassorilievi sul muro. 
In fondo alla navata troneggia, imperioso, un enorme organo. Rumore di tacchi sul legno, una ragazza che gira su se stessa in maniera perfetta, strumenti che suonano e bagliori accoglienti, sullo sfondo rumoroso di una tipica serata irlandese.

Usciamo e camminiamo verso il fiume: locali e freddo... Entriamo in un altro locale e ordiniamo una birra per uno. Una ragazza traballa alzandosi dallo sgabello: diversi bicchieri vuoti sul tavolo al quale è seduta; la musica sale vorticosamente di tono. 

Il collega scherza e ride, mi mostra foto dal suo cellulare e rosicchia noccioline salate per contrastare l'avanzata dell'alcool. So che non è un bevitore, e ne sono felice perché torneró presto in albergo, a tirare le somme della lunga giornata.

Mi trovo nel nord dell'Europa, in un'isola cosí verde da essere definita l'isola di smeraldo, in una città che si affaccia sul mare, in cui il sole fa capolino di rado. Al porto, ho saputo, ci sono sempre le foche, ma non sembra possibile andare... Orari e distanze, e doveri legati al lavoro.

Mi limito adesso a vedere la sfilata dei bus a due piani, color giallo fumetto, che sfilano rapidi secondo un senso di marcia contrario a quello cui sono avvezza. 
Cammino nel freddo e mi accorgo di non avere più i guanti: devo averli lasciati cadere in un pub. Dovrò comprarne di nuovi: il gelo entra dentro il mio corpo costringendomi ad incrociare le braccia. Cammino veloce, senza sentire le gambe, affascinata dal fiume e dal ponte leggero che lo attraversa.

In strada molto silenzio, poche persone e scorci deliziosi che sembrano appartenere a tempi diversi.
Me ne ritorno finalmente in albergo, con lo stomaco pieno ed una certa stanchezza. E' tempo di chiudere gli occhi.

Oppure di aprirli?





mercoledì 13 dicembre 2017

PLAGERIA


Ho ricevuto un'offesa. Qualcuno, in mia assenza, ha parlato ad altri di me. 
Quel qualcuno ha raccontato vicende e lamentato situazioni che nulla hanno a che fare con la mia persona.

Per tempi, per modi, per nulla.

Sono stata lo scudo e lo strumento per colpire altri, e nessuno me ne ha chiesto il consenso.

Strategia: ideare un programma di azione per raggiungere l'obbiettivo mirato.

Cosí una immagine, artificio infame sovrapposto ai miei modi, una veste falsa appositamente intessuta, mi ha avvolta come un mantello mimetico per eleggermi attrice in una battaglia tra estranei, uno scontro che non mi riguarda e non mi interessa. 

Un sequestro di vita: la causa di una indignazione sgradita.

Tempo fa ho letto qualcosa sul concetto di plagio, espressione oggi nota per condannare le deplorevoli azioni di chi, per scopi privati, si appropria dei beni di altri.

Un termine peró utilizzato in principio in maniera sottile, buono a chiarire davvero il perché della punizione sancita.
 
La gravità del reato era riferita all'abuso che tale azione aveva operato sull'identità del malcapitato di turno, e soltanto in un secondo momento sul bene in questione.

Il possesso di un bene implica sempre un trascorso di eventi che lo ha reso possibile. E questo trascorso appartiene alla vita di chi lo possiede: azioni, pensieri, emozioni, e via discorrendo.

Prendere qualcosa a qualcuno é soprattutto un furto di vita vissuta, un'azione terribile, che gli antichi romani destinavano solo a chi era tenuto davvero un nemico.

Alla morte di questi nessuno avrebbe piú saputo nulla di lui, niente sarebbe rimasto a ricordarne il passaggio terreno. Nemmeno un oggetto, nemmeno una scritta. Con la damnatio memoriae una intera esistenza subiva il sequestro più estremo, e veniva condannata all'oblio.

L'uccisione di un morto: il suo annullamento, nulla più che potesse ricordarne o ricostruire il pensiero. 

Nel mio caso, però, con me ancora in vita, una immagine falsa é stata sovrapposta alla mia, e diffusa illecitamente per scopi privati durante un mio periodo di assenza.

Informata dei fatti, ho aspettato. Ho atteso che la calma tornasse e che il momento opportuno guardasse alla porta.

Fingendomi ignara ho avvicinato singolarmente i colpevoli, e nel fare le dovute domande ho lasciato che gli uni accusassero gli altri davanti ad amici comuni.

E poi ho soffiato richiami nell'aria.

A quel punto sono uscita di scena, ed una nuova battaglia si é accesa, a disgregare il volano sgradito.

Un avatar può esser diffuso in maniera virale, ma in modo altrettanto veloce riceve smentita da chi ha in mira di farlo.

Il plagio è un'azione nefasta e indecente.... E dagli antichi latini ho imparato ad eliminare i residui.





















lunedì 13 novembre 2017

Relazioni pericolose




Ebbene sì, lo avevo già fatto e lo farò di nuovo: mi azzarderò ancora a toccare il tempio dell'intoccabile parlando dei gatti come solitamente in pochi osano fare.

Stamane mi è capitato di leggere questo articolo sul sito dell' Ansa, la prima agenzia di stampa multimediale in Italia, e ne sono rimasta piacevolmente sorpresa. Si tratta della recensione di un libro da poco pubblicato anche in Italia, sulle modalità comportamentali dei felini, e sugli effetti ch'esse possono avere sull'uomo quando vi si pongono in relazione.

In sintesi l'autrice - tale Abigail Tucker - ammonisce su quanto siano poco utili e addirittura dannose queste creature per l'essere umano, che se ne invaghisce ingenuamente perdendo di vista la realtà: i gatti si sono conquistati la loro parte di storia, dichiara, e sono capaci di farlo anche e soprattutto a nostro detrimento.

La loro forte autonomia li rende di fatto poco socievoli, non si lasciano addomesticare facilmente, e non sono di alcuna utilità pratica.
Piuttosto, oltre che danneggiare i nostri oggetti e gli ambienti nei quali vengono amorevolmente accolti, finiscono col pretendere cibo e attenzioni a comando, infischiandosene delle nostre necessità...

Il titolo del libro rievoca tiranni e antiche monarchie, laddove non è certo l'uomo a fare da padrone!

Tutto ciò ha richiamato alla mia memoria un certo sogno, vissuto un pò di tempo fa. Vissuto sì, perché i sogni si vivono continuamente, ad occhi chiusi come anche ad occhi aperti.

Quella notte vidi che stavo andando in un posto che era presidiato da gatti, tanti gatti, erano ovunque. Era un ambiente un pò trasandato, c'era dell'erba incolta, e tante canne che si stagliavano in alto dal terreno. 

Ciò che più mi stupiva era il fatto che di gatti se ne trovavano anche in cima alle canne... Erano ovunque, di varie forme e misure, ed erano tantissimi, erano davvero troppi! 

E sì che nei sogni può accadere di tutto, ma avevo la chiara percezione di un certo pericolo imminente; io volevo procedere, ma quel muro di felini lo rendeva impossibile.

Ricordo che quella mattina mi alzai in uno stato di ansia... Ero davvero preoccupata. Quello sarebbe stato il mio primo giorno in un nuovo posto di lavoro.
Che cosa mi aspettava?

Inutile dirlo: i sogni non sbagliano mai. 

E fu così: si trattava di un ambiente non proprio curato, lasciato in balia degli umori di chi sapeva soffiare più forte. 
Gli abitanti di quel luogo, insieme, costituivano un aggregato scomposto, di vari colori che tendevano, però, tutti quanti ad un medesimo grigio... Una tinta evocativa della polvere e di quelle cose vecchie che a volte rimangono in fondo all'armadio, dimenticate più o meno appositamente.

E come i gatti, che miagolando con fare lamentoso, ti si avvicinano e ti si strusciano addosso in modo ipnotico, mi avvedevo, giorno dopo giorno, della vera natura di quella ostentata dolcezza: era solo un anestetico somministrato alle vittime inesperte prima della brutta mutazione, quella che stringe a capocchia di spillo le pupille di un sadico killer.

Nel corso dei secoli, dei gatti si è detto e scritto parecchio; sono sorte leggende, la cui diffusione ha alimentato paure e ossessioni. 
I gatti piacciono molto, inquietano o sono davvero odiati: conosco persone dell'una e delle altre squadre; quanto a me, preferisco evitarli.

I gatti - non vogliatemene - non mi sono troppo simpatici. Detesto i loro modi ruffiani, e non mi piace che chiunque - indipendentemente dal numero delle zampe presenti -  mi si strusci (anche ripetutamente) tra i piedi...

Ci fu un periodo, durante l'infanzia, in cui l'unico modo che trovarono i miei genitori di zittire le continue lagnanze (da sola non mi divertivo, e volevo un amichetto a quattro zampe), fu di concedermi di ospitare in casa, sia pure per un breve periodo, il gatto di una persona amica (che ne approfittò per godersi una bella vacanza): la condizione essenziale che mi affrettai ingenuamente ad accettare mi rendeva diretta responsabile delle sue necessità e delle sue azioni.

Ovvero: dei suoi bisogni e dei suoi disastri.

Inutile dire che imparai presto la vera natura di quell'animale. Non si trattava di un amico peloso con cui divertirmi giocando, ma di un ruffiano scroccone e seccatore di cui mi liberai, al termine del periodo previsto, assai volentieri. 

I suoi lamenti per il cibo mi entravano nel cervello a partire dal mattino presto, anticipando di molto l'odiosissima sveglia; alcune cose le mangiava, altre le snobbata impunemente, imponendomi l'onere di cercare una alternativa per lui tollerabile; poi, nonostante i miei sforzi di dimostrare amicizia e spirito di gruppo, se ne stava spesso per conto suo, consumando il tempo nella distruzione di tende e sfregiando mobili, con il fantastico ulteriore risultato di accrescere giorno per giorno la già nota tensione vigente tra me e i generali... 
Insomma, un fiasco totale.

Non è amico chi prende e pretende, e se ne infischia di dare!

Lezione imparata: è trascorso del tempo prima che tornassi alla carica chiedendo la compagnia di un altro animale che, comunque, ho poi individuato tra i nemici del nemico: un cane! 
Ma quella è un'altra storia...

La psicologia tende da sempre a identificare nel gatto la simbologia di una femminilità apparentemente dolce e affettuosa, ma latrice di aggressività e opportunismo...

Ed è così che ce la presenta anche il mondo dei fumetti, attraverso le splendide forme di Catwoman, il fumetto che annovera la sua protagonista tra i primi 100 personaggi comix più cattivi: bella, seduttiva, approfittatrice e ladra, abilissima a sgattaiolare via al momento opportuno.

Prende, pretende, e se ne infischia di dare... Anche se sembra così desiderabile!

Sembra che nemmeno Batman abbia ceduto a lungo alle sue lusinghe, tanto da riuscire a metterla alla porta ai primi sospetti che dietro la sua infatuazione per lei ci fosse lo zampino del nemico illusionista.

Dalla realtà alla fantasia... Fino nei personalissimi sogni...

Fate attenzione amici, non è del famigerato gatto nero che dovete preoccuparvi: quello è solo l'elemento distrattivo.... Comunque, se ne vedete uno attraversare la strada, accelerate e andate via il più velocemente possibile: intorno potrebbero essercene degli altri....








giovedì 2 novembre 2017

INTUIZIONE !




Oggi ho discusso con una persona su cosa sia la facoltà del pensiero.

E' stato un giorno di festa, avevamo da poco terminato un raffinatissimo pasto e, come a volte succede, ci siamo immersi in un dialogo dai toni animati, il cui sapore aveva del quesito, del confronto, dello scontro assertivo... Fino alla conclusiva piacevole convergenza.

Un bel pasto completo, insomma!

La mia pregressa formazione filosofica, come una nemesi, mi spinge a considerare il pensare come un atto conoscitivo; la capacità di riflettere e di mettere insieme i pezzi, cioè, è sempre stata per me una forma di conoscenza che rende possibile la conoscenza per come solitamente la intendiamo, ossia la conoscenza delle cose.

Il mio interlocutore osteggiava vigorosamente tale approccio, sostenendo che il pensare costituisce solo un passaggio successivo, quello che è introdotto e reso possibile dall'intuizione.
E questa intuizione, identificata nella capacità computazionale, esplica l'intelligenza di cui è corredato l'essere umano. 

Mi sono sentita trascinata indietro di anni, in quelle aule universitarie in cui si contrapponeva una vaga idea metafisica di intuizione alla familiarissima capacità riflessiva e razionale. E a causa del sabotaggio dovuto alle mie memorie, mi sono distratta, perdendomi un passaggio di cui mi sono accorta solo in seguito, dopo ulteriori fiumi di parole, alzate di toni, e sbuffate impazienti di chi mi sedeva davanti.

La computazione: parola magica.

Ossia: il talento di mettere insieme le parti in maniera simultanea, quell' insieme di processi che trasformano gli impulsi che mi impattano in un linguaggio "leggibile" e percepibile.

Con l'espressione "intuizione", il mio interlocutore si riferiva a ciò che i neuroscienziati definiscono "TR", il tempo di reazioneun indice della velocità di processamento delle informazioni da parte del cervello umano - che tra l'altro, in merito agli stimoli visivi, impiega un tempo medio tra i 150 e i 300 millesimi di secondo.

Niente più artificiosa metafisica; oggi parla la scienza: ci sono tempi di reazione necessari a ordinare il bombardamento di informazioni, e sono stati anche calcolati!

E intanto che l'altro argomenta, mi si accende una lampadina. Mi viene in mente ciò che ho letto tempo fa su come i browser raccolgono le informazioni dal web e le traducono in un linguaggio comprensibile per gli utenti che hanno posto domande, avviando il processo di ricerca, di ricezione, e quindi di traduzione.

Computazione.
Anche in quel caso la velocità ha una sua importanza.

E questo linguaggio in cosa consiste? Non sorprendo nessuno se parlo di immagini, vero?
Fate una prova sul web, digitate qualcosa su Chrome - o su qualsiasi altro browser cui preferite affidarvi - e in pochi istanti avrete davanti una pagina piena di immagini e di scritte.

Bastano poche nozioni sul linguaggio macchina per comprendere che anche le scritte, in realtà, sono immagini - risultanti di un programma che stabilisce la visualizzazione di certe forme dovute al susseguirsi di specifiche istruzioni.

Ed ecco che come fruitori del web, ci relazioniamo ad un linguaggio comune, un linguaggio primordiale, nativo, universale, che può essere poi certamente e debitamente tradotto in molteplici linguaggi diversi: l'intuizione, che esperiamo (poi) come immagine, precede la capacità di pensare, di riflettere (su di essa e grazie ad essa).
Come sul web. Come nei film. Come nei sogni.

In questi giorni ho incontrato su carta Lev Manovic, professore emerito di Computer Science Program al City University di New York, il quale sostiene che la realtà virtuale rende possibile ciò che razionalmente potrebbe non essere, in quanto azzera i limiti che la finitezza storica ci impone (limiti spazio-temporali, limiti di gravità, limiti di azione...) e ci consente così di fruire di un'area libera, svincolata, in cui sperimentare, osservare e modificare il risultato di ciò che vogliamo realizzare.

Questo spazio costituisce una realtà libera in cui esperire e conoscere in modo nuovo, in padronanza di prospettive finora impossibili, e di poter quindi prevedere le conseguenze al punto da divenire noi stessi capaci di gestirle o evitarle prima ancora di realizzare concretamente il progetto.

Progetto che peró esiste già e accade, sia pure in altra forma ed in altro stato.

Malevic parla di software culture, ossia del fatto che la disponibilità di software, propria di questa era informatica in cui viviamo, e la loro fruizione, espandono sempre piú le nostre capacita cognitive, spingendoci ad agire in modo diverso, perché ci permettono essenzialmente di pensare in modo diverso.
Oggi noi abbiamo cioè a disposizione la visualizzazione di una intuizione nella sua complessità, e possiamo osservarla e studiarla in piena libertà, senza limiti di prospettiva: é lì e ci appella.

Immagini libere dai limiti della storia e della fisica, che sono il frutto di coordinate, di istruzioni: if...then (a fronte di certe condizioni accadono certi effetti)!

Proprio come nei sogni, nei quali le coordinate della nostra situazione danno vita ad una rappresentazione che oltrepassa i limiti imposti dal reale, attraverso un personalissimo processo intuitivo che computa informazioni e ce le rende accessibili.
E come un browser, in tempi rapidi, ci presenta delle immagini.

Su queste immagini potremo poi riflettere e argomentare, come fanno i critici d'arte, i filosofi e gli esegeti.

Ora, però, nella Babele degli interpreti, sarebbe opportuno verificare i criteri dei quali essi si servono, in quanto non sempre son chiari e rispettosi del naturale modo dell'umana specie.

Suggerisco, in merito, una utilissima lettura:











PEDAGOGIA ESISTENZIALE: SULLE ORME DI DANIELE BERNABEI



Proprio in questi giorni riflettevo su quante persone malate ci sono in circolazione: così tanta sofferenza che trova forma in individui alterati in maniera più o meno visibile, nel corpo o nei comportamenti.

Poi mi sono imbattuta nell’articolo di Daniele Bernabei qui pubblicato, e sono partite in corsa le dita sulla tastiera…

Chi mi segue lo sa: io sono quella che osserva gli altri come comunicanti, laddove ogni atto comunicativo è sempre un comportamento, un fare.

Watzlavick sosteneva che la cosiddetta malattia mentale e' sempre espressione di un modo comportamentale, una risposta ad una provocazione, eseguita secondo criteri non funzionali per il soggetto in un dato contesto: il qui e ora della persona, il suo stare in quell’universo così ben descritto da Bernabei nel testo succitato. 

E’ così: le leggi dell’uomo molto spesso impongono quanto le leggi della natura non contemplano, e chi vi si asserve - sia pure in buona fede - per ignoranza o per paura, si trova poi a far i conti con la Vita, giudice supremo dei nostri modi.

Heidegger utilizzava l’espressione Dasein per indicare l’uomo storico, quell’uomo lì, in quel momento lì, radicato alla terra su cui è nato, e in cui vive, momento per momento, sempre alle prese con la praticità dell’esistere. 
Individui che hanno un tempo limitato ma tanto potenziale da poter sviluppare, chiamati a scegliere se lasciarsi vivere, gettati tra le cose, o se attuare la propria autenticità.

Questa idea di autenticità e di scelta riportano all’incipit della Responsabilità, quella verso cui Bernabei punta il dito quando afferma che “c’è sempre una colpa…Il fatto stesso di mettersi sulla croce, lo fa colpevole”.

Ma come si fa a trovare la propria via? 

Heidegger parlava di una chiamata da parte dell’Essere… Qualcosa che viene da dentro in ognuno di noi, e si appellava all’ambiguo e ricchissimo linguaggio della poesia come espressione esemplare di tale appello, un linguaggio che chiama chiamando in causa tutto l’uomo, non solo “la sua parte razionale”: un linguaggio che parla per immagini e sensazioni… H. ricordava infatti, con Holderlin, che l’uomo abita poeticamente su questa terra.

Ma il linguaggio, per propri limiti strutturali, non è sufficiente a dire quanto può essere solo vissuto in prima persona, ed è qui che i filosofi hanno sempre trovato l’ostacolo…. Una ricerca che si ingolfa per via del limite degli strumenti disponibili.

Ecco che Bernabei ci accompagna in quello che B. Russell definirebbe “il salto di livello logico”, ossia ci sposta in una modalità diversa di indagine, una modalità personale, rispettosa della individualità storica di ognuno, che si serve di un linguaggio universale, e che rispetta i criteri di conformità alla nostra stessa natura storica: la funzionalità naturale, biologica ed esistenziale. 

Ci porta al cospetto del linguaggio delle immagini, e ci pone dinanzi a loro in maniera totale, a chiederci come le nostre cellule reagiscono.

Non è più la nebulosa e a volte comoda metafisica di certi noti filosofi, ma una scienza diversa, a cui siamo poco avvezzi e che inizialmente destabilizza.

La legge dell’uomo costruisce un mondo di valori, che variano nel tempo e nello spazio secondo i flussi degli eventi e dei colori del vincitore di turno; la legge della natura risponde solo a se stessa e ci chiama direttamente, da dentro, e ci parla, e ci dice di noi. 

E’ quella spinta verso l’autentico che non molti hanno il coraggio di assecondare. E’ quell’istanza che ci sottrae al modo dell’esser cose o pupazzi, che rischiara il senso di un vagare che ci pone umili e ci riempie di domande, spingendoci a cercare.


Mi guardo intorno e nel vedere tanta sofferenza diffusa mi chiedo quanto ancora ci vuole perché la pedagogia renda possibile un accostamento delle leggi dell’uomo a quelle della natura, e si faccia finalmente pedagogia esistenziale.

Bernabei, nel suo scritto, si sofferma sulle dinamiche della rimozione, ed io stessa mi chiedo se questa cecità, questo ritardo e questa titubanza non siano il frutto di una più ampia rimozione che l’umanità tutta ha eseguito su stessa e sui propri canali gnoseologici: abbiamo dimenticato l’importanza di osservare le immagini, abbiamo dimenticato come leggerle, abbiamo dimenticato di ascoltare noi stessi.

 Tutti proiettati nella costruzione di un senso da attribuire a ciò che c’è fuori, dietro la spinta della legge che uomini dai colori vincenti, in un dato momento, hanno codificato per noi.





martedì 10 ottobre 2017

Ri-Beh



Tempo fa ho pubblicato su questo blog una piccola favola: l'idea era nata da un gioco protratto per tempo con una persona amica, in riferimento ad un grosso fermaporta  a forma di pecora che gli avevo fatto trovare in casa. 
L'oggetto era buffo, e aveva ispirato fantasticherie divertenti dall'esito di volta in volta sorprendente.

...Noi ci divertiamo anche così...


Di recente è arrivato un commento lamentoso al medesimo post (Beh) condiviso su G+, firmato "Pecor -Hill"...


...E siccome non riesco a resistere alle provocazioni, ho deciso di comporre questo post!!!


Buon divertimento

:)


Ri-beh


Nel solitario Far West... Vaga ruminando un pecoro stizzoso.
 La pelle del muso rinsecchita per il sole impietoso che, giorno dopo giorno, insiste nella steppa a punire ogni vivente. 


E su quel brutto muso pieno di segni, l'ombra di un cappello... Il cappello di Pecor-Hill!

Rotolano i rami secchi aggrovigliati, sulla terra arida e cocente, mentre alti volano gli oscuri avvoltoi...

Pecor mastica quei pochi arbusti disponibili, rubati all'ombra dei cactus spinosi, eretti verso il cielo. Distese immense di terra rossa, bassi cespugli e sinuosi serpenti, che scattano ad ogni rumore, nell'attesa di una preda.

L'aria è tesa, nel silenzio della steppa, e la luce è così forte da ferire gli occhi. Promessa di tragedia, d'intorno, e l'odore di morte si addensa nell'anima provata.

Gli avvoltoi gridano e girano in tondo. Pecor socchiude le palpebre provate e sputa in terra una chiazza verdastra di saliva mista ad erba. 

Trotterella il nostro eroe, e incede tranquillo nell'atmosfera resa surreale dal cielo immenso, troppo azzurro per quello strano giorno. Ma è il suo ambiente: la solitudine è la sua casa, la sua vera compagna di sempre.

Le pistole lungo i fianchi, ben assicurate al cinturone, greve di pallottole ancora da sparare. Pochi movimenti intorno, e il fastidioso ronzare di mosche e tafani.

Questo caldo ucciderebbe chiunque, ma non lui.

Un fischio lontano allerta l'animo solitario, una pausa, e poi ancora un suono. Quei corpi neri non cessano la danza macabra ben nota, e dai monti non proviene nulla. 

Solo quel suono, e del fumo. 

Lontano qualcuno si è accampato, o  magari si tratta degli indiani, strani bipedi che girano a cavallo con i pennacchi sulla chioma.

Anche loro hanno la pelle brunita dal sole, ma il vello copre loro solo il capo, ed è liscio, e scuro. Sono coinquilini rumorosi, in questo mondo fatto di suoni e di odori, emettono urla gutturali mai udite in altre specie, e scorrazzano sui prati alzando tanta polvere, e facendo fuggire via i bisonti.
Quelli si che sono tranquilli, grossi compagnoni sbuffanti e scuri, sempre liberi nel vento e nel sole... Un sole ardente.

Pecor trotterella solitario, al riparo della tesa di cuoio del vecchio cappello da cow boy, quando a un tratto avverte un altro suono, familiare, forse, e femmineo... Ha un chè di rustico e di dolce...

Sposta il cappello con la zampa e aguzza il guardo: all'orizzonte una casetta. Il fumo esce dal camino, e uno steccato fresco di pittura tutt'intorno.
 E lì, sulla radura, tra lo steccato e la casetta, un batuffolo verdastro che si muove lentamente. Pecor si avvicina, controlla l'impugnatura delle colt, e sposta lo stecchetto da una parte all'altra della bocca.

Si ferma di colpo, come è solito fare prima di un duello, ma egli è già vinto, prima ancora di entrare in azione: il fiato fermo nei polmoni, gli zoccoli congelati al suolo: il sole tondo, alto nel cielo, illumina come un faro quel tenero verde vivente.

 Rotolano le balle di sterpaglia, e coprono per un attimo infinito la visione. Lei ora è più vicina, annusa l'aria, in posa tra fiori colorati, intanto che bimbi allegri fanno il girotondo intorno a lei, tenendosi per mano. 

Voci infantili accompagnano la scena: gli occhioni innamorati di una pecor-illa verde sono spalancati su di lui, su quel brutto muso rinsecchito, pieno di cicatrici e di sogni  avventurosi. 

Nell'alto il cerchio è rotto: ora rondini inattese sfrecciano nel cielo a inaugurare il tempo dolce dell'amore.

Brillano al sole le fumiganti pistolone, in attesa di nuove scorrazzate nel clamoroso storico far-west!





giovedì 28 settembre 2017

CONNESSIONE



A volte capitava, quando ero piccola, che tutta la famiglia si trovasse fuori casa per cena, che fosse un ristorante o la classica pizzeria. Durante questi eventi io ero felicissima, perché si stravolgeva la monotonia delle abitudini: l'avvicinarsi dell'ora X; la mamma che chiamava in tavola; il successivo inesorabile urlo nervoso a favore dei ritardatari - solo il papà, in effetti - e quell'odore di cucinato che invadeva l'appartamento, anticipando le reazioni di approvazione o rifiuto degli imminenti avventori.  

E via, ognuno seduto al suo posto, la televisione sintonizzata sul noiosissimo e poco comprensibile telegiornale, che dominava impersonalmente la situazione imponendo il divieto di parola. 
E la noia.

Io capivo davvero poco di quanto veniva raccontato - e che ne può capire una bambinetta di questioni di politica interna ed estera? -, ma ero sempre infastidita dai toni incalzanti del presentatore di turno, che metteva le parole rocambolescamente in fila, e le sospingeva in avanti inscenando una gara di velocità sonora.  

Era asfissiante e faticoso. E poi il telegiornale veniva trasmesso sempre in concomitanza con le animazioni che avrei tanto voluto vedere...

Il mondo è dei grandi, però, proprio come la televisione, e quindi vincono loro!

Ma quelle uscite erano entusiasmanti: potevi scegliere il menù, eri incoraggiato ad assecondare i tuoi gusti, erano concessi gli stravizi (gelati e dolcetti), e soprattutto si dava libertà di parola. 
Allora mi sbizzarrivo a fare domande, dicevo la mia, e potevo soddisfare quella curiosità che mi appartiene ascoltando i racconti dei grandi.

I grandi hanno sempre qualcosa da raccontare... Sono lì che respirano da molto tempo prima di te! E siccome la tenera età mi negava un ampio bagaglio di esperienze pregresse, potevo scoprire il mondo attraverso le loro parole, ed emozionarmi grazie alle loro espressioni.

Insomma: fruivo di documentari in 3D!

Sono trascorsi parecchi anni da allora, e il pasto in compagnia per me é ancora fonte di entusiasmo - almeno quanto il senso claustrofobico trasmesso dagli snocciolatori di notizie che appaiono dagli schermi a orari convenuti.
E che quindi evito di ascoltare. 
Le notizie preferisco cercarle viaggiando tra testate diverse, e le accolgo con i miei tempi e nei modi che ritengo più consoni alla mia natura.

Quanto ai commensali...Beh anche lì sono piuttosto selettiva, dato che dal tempo di quelle prime esaltanti esperienze ho incontrato molti documentari noiosi, se non addirittura sgradevoli. 

Il mio interesse per l'altro non è mai scemato, solo che certi canali offrono presentatori molto simili a quegli angoscianti emanatori di parole veloci e dalla forma vuota. E francamente, mi sentirei un po’ fessa a subire un documentario che non trasmette novità, emozioni, e vita. 

Lo dicevano i saggi che praticare l'otium è un fare virtuoso, ma l'oblomovismo, quello proprio non lo sopporto.
Una socievole asociale, insomma, secondo la definizione di alcuni, o una solitaria compagnona.
 Mah... Il relativismo!

Insomma, io amo il convivio: questa frazione di esistenza in cui anime vive si incontrano contribuendo l'una all'evoluzione dell'altra, e lo fanno col gioco, con il racconto, con le provocazioni, con modi seriosi ed esercizi di stile... Si abbracciano finemente dall'interno, anche se solo per brevi momenti, alimentando così la propria e l'altrui luce di vita, in un crescendo di piacere globale. Lo dice la stessa parola, in fondo, indicando una coesistenza vitale: il vivere - nel senso più pieno del termine - insieme. 

L'incontro, però, non è dato solo intorno ad un desco: può accadere in ogni momento, e in insospettabili luoghi, nei quali puoi casualmente incontrare un altro individuo, e per un qualche oscuro motivo le vostre voci arrivano a distendere ponti, sostenuti da immagini varie che trasmettono e alimentano vita. 

Ogni momento può aprire l'Incontro, e dar voce ad un gioco che ha il sapore del sacro.

Molti di noi però non sanno ascoltare, impegnati a proteggere sé da quel tanto che impatta e che smuove, e limitano la propria attenzione in atmosfera diversa, fino a dimenticare quel mondo fatto di fibre, di sangue e di luce nel quale vanno distrattamente vagando.

Ieri sera, curiosando nel web, ho incontrato il sospiro di chi, come me, apprezza dialogare con l'altro, ma che pure, a volte, è costretto a non farlo.

E ho deciso di unire il mio suono col suo.

Buona visione...