Jung studiava l'uomo. E per incontrare l'uomo si mise a studiare le
immagini che questi produce e ha prodotto nel tempo. Quelle interiori e
quelle che nei secoli sono state estroflesse, venerate, additate e oscurate.
Locke, un pò di tempo prima, dichiarava che usiamo il linguaggio per
condividere le nostre conoscenze del mondo, ma non è con il linguaggio che
possiamo arrivare a conoscerlo. In particolare sosteneva che:
I nomi
non si riferiscono alla realtà, ma alle idee esistenti nel nostro intelletto, e
dunque il linguaggio non serve per lo studio della realtà, ma solo a porre
ordine nel pensare.
Il linguaggio, quindi, non ci consente
di cogliere l'essenza delle cose ma solo la loro essenza nominale: concetti,
idee messe insieme a costruire e orientare direzioni di azione.
Era il Saggio sull'intelletto umano, quel testo in cui il pensatore scandagliava i vari modi in cui l'uomo
arriva a conoscere. E così arrivò a definire diversi modi di conoscenza: per
fede, per probabilità, per dimostrazione e per intuizione. Fino a dire che
sì, siamo sempre nella sfera del probabile e dell'interpretabile, perché il
linguaggio non arriva mai davvero ad esprimere quelle "chimere" che
ognuno ha dentro di sé, quelle fantasticherie prodotte dalla nostra
immaginazione che renderebbero egualmente autentica, qualora coerentemente
espressa, la visione di un pazzo come quella di un uomo tenuto per sapiente.
Immaginazione, fantasticherie e chimere che ci muovono da dentro, nel
privato, e ci danno una conoscenza del mondo che metabolizziamo e manipoliamo
ogni dí.
Immagini che il linguaggio non arriva a descrivere, limitandosi a
rappresentare idee eterogeneamente azzeccate tra loro. A volte spontanee, a
volte trasmesse, a volte apprese con modi invadenti e non rispettosi.
Idea: una parola che viene dal greco ίδεἶν (ideìn), e indica l'atto
del vedere, del cogliere con la mente ciò che appare... La percezione di
immagini.
Conosciamo attraverso le immagini, ma il linguaggio che usiamo comunemente
non riesce ad esprimerne completamente il senso...
E torniamo a Jung.
Come altri scienziati rivolse la sua attenzione alla potenza delle
immagini, e ne raccolse tantissime da studiare: le immagini della tradizione
mistica, filosofica, alchemica, quelle dei suoi pazienti e le proprie.
Dopo la sua morte ha trovato diffusione un libro di sogni personali
che lui aveva pazientemente compilato per anni, commentando e
annotando, con tenace sforzo interpretativo, alla ricerca di una
misura che lo aiutasse a decodificarne l'espressione.
Un documento talmente personale e privato che l'autore stesso rifiutò alla
pubblicazione per tutto il tempo in cui rimase in vita (lo fecero pubblicare
gli eredi, a dispetto della sua volontà e in irrispettoso odor di moneta).
Era il suo Libro Rosso - di nome e di fatto.
Egli sapeva che il linguaggio immaginifico è il modo più intimo che
abbiamo di parlare a noi stessi e di esibire la nostra realtà in modo diretto e
sfrontato, in barba ai dettami sociali, alle suddette buone maniere e al
comune senso del pudore.
Esso ci mostra quello che in quel preciso momento stiamo facendo, la
sua utilità e l'eventuale degrado che imponiamo alla nostra persona per scelte
sbagliate, non rispettose della nostra più propria natura.
Un'infamia condotta per falsi giudizi che ricade su quanto facciamo, o la
premessa azzeccata di un successo in fieri.
Jung era noto come uomo di scienza, che andava esaltando la
valorosa funzione formativa della psicologia, orientata a far comprendere - a
suo parere - a chi non vede che ha solo necessità di imparare a farlo.
Poteva forse mostrare a tutti i suoi dubbi, gli errori e le incertezze
profonde, ma decise di tenere per sé i propri esercizi...
Il punto di grande dissenso con Freud, al quale si era accostato per un
certo periodo, riguardava proprio l'approccio da colui riservato alla
lettura dei sogni.
Per Jung ciò che vediamo con gli occhi interiori della nostra persona
(il sè o l'anima, come
la si preferisca indicare) non è solo relegato al passato: la vita è continua,
attiva, muove e procede. E quanto eseguiamo riguarda il nostro presente che,
per quanto inficiato del proprio vissuto (sia pure molto lontano nella linea
del tempo), è radicato nell'attualità del nostro momento, e consequenzialmente,
riguarda l'estensione futura degli echi del nostro operare.
Si ostenta pertanto una sintesi, sia pure sotto forma di enigma, del nostro
momento corrente: situazione, sentimenti, pressioni, errori, variazioni e
ambizioni. In un fantastico rebus abbiamo le coordinate della nostra esistenza
- per come in quel dato momento stanno orientando il nostro percorso.
Non una fumosa e magica precognizione, ma una progettazione viva, in
itinere, disponibile alla conoscenza intuitiva, alla percezione
eidetica: una visione personale sincronica, irriducibilmente connessa a
quanto accaduto e alla direzione intrapresa. Un prospetto che possiamo variare,
se solo impariamo a vederlo.
Questo era l'aurum non vulgi cui mirava
la grande alchimia, rozzamente confusa nei suoi raffinati obbiettivi:
voler mutare in preziosa la materia volgare era lo sforzo
esemplare per azionare un cambiamento di tipo diverso, mirato a far
uscire dall'oscuro rifugio ogni uomo, finalmente congiunto con quanto
di se' per vari motivi si costringe a ignorare.
E questa auspicata ricongiunzione, descritta come slancio
universale della natura verso la libertà di essere per sè, era quel valore
piú puro che Jung definiva "l'evidenza inalterabile della
propria parte d'immortalità".