Il Mio Blog non vuole essere un monologo, ma un invito all'incontro: pertanto sono graditi i commenti e il succedersi degli scambi che ne conseguono.
Buona lettura!

sabato 25 febbraio 2017

GIOCHI NON CONVENZIONALI


Di recente m’interesso di ciò che passa sotto il nome di "marketing non convenzionale": modalità pubblicitarie sviluppate dopo gli anni 70, che agiscono sulle persone a livello profondo, attraverso tecniche manipolatorie discretamente invadenti.

La pubblicità oggi non presenta più "il prodotto", non ne espone le caratteristiche allo scopo di incuriosire, informare, far apprezzare e indirizzare alla scelta - e quindi all'acquisto.

Oggi ci vengono presentate emozioni che potrebbero essere connesse a quel prodotto o servizio.

Emozioni sapientemente ricercate e affiancate a certi nomi, a profumi e oggetti ... Proprio perché estrapolate dalle reazioni che ci provocano determinati stimoli.

Ormai le grandi marche si affidano a consulenti evoluti, che si servono di informazioni ricavate dalle neuroscienze, supportati da sofisticati strumenti medici come la risonanza magnetica, la tac, la scansione cerebrale.

Vengono condotti esperimenti complessi che mettono persone comuni nella condizione di attraversare percorsi sensoriali: vengono allestiti set di studio con aree appositamente attrezzate per poter osservare - anche chimicamente - come le nostre cellule e il nostro cervello reagiscono a certi imput. Così vengono propinati odori, indotte fantasie, suggeriti nomi, sollecitati ricordi....

Cavie e laboratori.

Dietro gli spot - belli, patinati, simpatici o inquietanti - c'è questo: cavie e laboratori. Strumenti di indagine, analisti, e "creativi": equipe di persone collazionano diligentemente dati in modo da raggiungere obbiettivi definiti.

Non si tratta più di vendere un prodotto, ma di creare un innamoramento verso la tale marca, di accendere e mantenere vivo un senso di appartenenza e fedeltà così radicale da rendere il destinatario a sua volta un informatore, anzi, un promotore: un canale vivo, esistente, di pubblicità.

 Il passaparola è un canale potente, tra i più utili ai fini della persuasione, perché arriva attraverso le labbra di una persona amica, che conosciamo, di cui ci fidiamo.
L'amico è garante di onestà, di correttezza, è colui che pone il sigillo sulla dichiarazione di buona e onesta reputazione.

I pubblicitari questo lo sanno bene. 

Ecco quindi che il mondo degli sponsor finisce nei social in modo capillare e infido, distribuendo le sue spore attraverso la viralità.

M. Lindstrom, uno dei più famosi brand producer a livello mondiale, racconta in prima persona un esperimento da lui messo in atto: in un suo interessantissimo libro scrive di aver assoldato una famiglia di attori e di averli mandati a vivere per un po’ in un quartiere americano, con l'obbiettivo finale di spingere vicini e amici ad appassionarsi e ad acquistare i prodotti di alcuni marchi. 

L'esperimento è super riuscito, tanto che le vittime inconsapevoli, finalmente  informate dei fatti, non si sono affatto infastidite: per loro andava bene così perché di quelle persone si fidavano. 

Ma un altro potente mezzo persuasivo - ce lo confessa sempre Lindstrom, e lo  dimostra con chiarissimi e comunissimi esempi presi dalla vita quotidiana (anche la nostra) - é quello di far leva su emozioni terribili come quelle della paura e del senso di colpa, fino ad utilizzare la vergogna che da esse consegue.

La paura inibisce la lucidità di pensiero, portando gli attori ad accettare suggerimenti che vengono dall'esterno; la vergogna e il senso di colpa orientano i comportamenti con un senso di urgenza imprescindibile: comportamenti che non risultano da reali e naturali istanze personali, ma che rispondono a dettami esterni, imposti (dalle leggi morali, dell'educazione, dalla religione..): nel buio della notte è piuttosto facile scambiare una lucciola per lanterna!

E così spot, manifesti e jingle sfruttano la nostra paura di non essere all'altezza, di rimanere soli, di non essere abbastanza belli, o sani, di non saper essere abbastanza protettivi con i nostri figli... E ci spingono all'azione... A quella specifica azione che ci stanno subdolamente imponendo (compra quel prodotto, utilizza quel servizio...)

Lo scarso esercizio della capacità critica porta a subire quella che Heidegger definiva "la dittatura della pubblicità": il "si dice", "si fa"... E se lo fanno tutti lo faccio anch'io, sennò poi resto fuori e sono solo".
Legiones: anonimo sì, ma (falsamente) rassicurante.

Questo però non é tutto: gli scaltrissimi sirenici canti indirizzano verso un comune sentire proprio attraverso lo studio della umana distinta particolarità.

I dati evinti dalle profilazioni digitali vengono ormai integrati con le indagini eseguite sul campo: i "creativi" vivono per lunghi periodi con le persone che devono indurre ad una certa abitudine, le osservano, vi interagiscono. 
Ne sanno di più, e possono finalmente costruire il sogno giusto, quello adatto alla tipologia di persone in esame - di consumatore, anzi, di consumatore-futuropromotore.

Il film che viene da qui propinato, quello che la vittima inconsapevole si trova ad interpretare, non rappresenta né suggerisce reali istanze o suggerimenti utili di azione, quanto piuttosto una realtà virtuale (nel senso di falsa) verso cui tendere, in grado di soddisfare realmente solo l'esigenza di spendibilità dei marchi in questione. 
Ne conseguono azioni illusorie, deviate, spesso non utili. 

Viviamo in un mondo costruito, vediamo scenari molto spesso alterati, siamo parte spesso inconsapevole di pieces di successo, i cui incassi girano molto lontano dalle nostre tasche.

Attori inconsapevoli sotto la direzione di registi invisibili. 

Allora sforziamoci di ricordare che le rappresentazioni ci spingono a fare, e che
dietro quelle immagini (lo spot, il cartellone, il filmato) operano strategie ben studiate per orientare le azioni di chi le subisce.

Le rappresentazioni sono sogni: dinamiche filmiche che espongono situazioni, emozioni, cambiamenti, aspirazioni, pericoli... Che suggeriscono soluzioni.

Esistono sogni indotti e trasmessi attraverso canali esterni - come il marketing di ultima generazione - e sogni personali che nascono da noi, frutto di coordinate, problematiche e situazioni personali (rappresentazioni oniriche, flash, lapsus ecc).

Dietro quelle immagini - e le sensazioni che suscitano in noi - si cela un algoritmo, una strategia di azione finalizzata al conseguimento degli obiettivi del regista: che sia esterno (il brand) o interno (noi stessi).

Dobbiamo solo scegliere se realizzare, a loro vantaggio, gli scopi di altri, o se dedicarci a noi stessi, osservando e rendendo concreto nel fare il nostro modo di essere.











NB:
Esempi pratici a questo link





                                                                                                                     

mercoledì 15 febbraio 2017

NAVIGATORE ESISTENZIALE




Ho compiuto da poche ore 44 anni: un bel record, mi dico. Come ogni personcina seria, adesso dovrei fare il mio discorso di valutazione, in cui tirar le somme su quante delle mie aspirazioni, nel frattempo, si son concretizzate, di quanto vorrei ancora realizzare, di progetti, sorrisi e cotillon...

E invece no.

Io sono quella strana, la filosofa, quella che fa sempre a modo suo... La capocciona... E allora, in pieno rispetto alle suddette descrizioni che mi capita spesso di ricevere, faccio a modo mio. Niente consuntivi: solo uno sguardo in avanti!  Mi sembra il modo migliore per iniziare il viaggio numero quarantacinque. O meglio: per continuare un viaggio che dura da quarantaquattro anni compiuti!

E allora sia: buon compleanno e buona continuazione! Me lo dico primariamente da sola, un pò per regalarmi allegria e un pò per consolarmi anche delle sbandate in cui mi sono imbattuta.
Per dirla tutta, i consuntivi li faccio di frequente, mica aspetto il 13 febbraio di ogni anno! quindi, il compleanno lo festeggio come un giorno da vivere, possibilmente in libertà, a modo mio. Niente eccessi, niente rituali stravaganti, niente contatti formali o necessariamente "politico-diplomatici".

Faccio quello che mi va, e me la godo. E venite a dirmi che è sbagliato.

Ho sempre ritenuto che la data del compleanno fosse una data importante, da festeggiare: si nasce una volta sola! Vero, ma si vive anche, una volta sola - almeno ad esperienza nota. Quindi avvio il tergicristalli della mia mente e tolgo un pò di memorie patinate dallo schermo: la torta piena di panna, le candeline, i sorrisi, le telefonate... Quella frase ripetuta in modo squillante (tanti auguriiii)... Tutta quella luminosità disneyana...

In realtà, quando ero piccola, ogni anno era la stessa solfa: il pranzo in famiglia, risposte cordiali ad auguri forzati, la foto di gruppo mentre spegnevo le candeline - di colore rigorosamente rosa -, il taglio della prima fetta di torta, i pacchetti da scartare.. etc etc etc.

I tergicristalli fanno un altro giro e, a dirla tutta, provo un pò di oppressione: una rappresentazione permanente, ripetuta, scricchiolante e falsamente morbida, eccessivamente zuccherata... Insomma: indigesta come lo sono le meringhe.

A poco a poco ho cominciato a rifiutare le torte e poi tutto il resto è sfumato via, verso un modo diverso di celebrare me stessa, un modo che si è esteso, al passo della mia evoluzione, al calendario intero.

Il Cappellaio matto raccontato da L. Carroll festeggiava i non-compleanni, e io cerco di vivere bene ogni giorno che mi trovo a percorrere: penso sia il modo migliore per onorare lo straordinario evento di una nascita. Una nascita che, nel mio caso, è iniziata alle 4.00 di un lontano mattino, ma che si rinnova di continuo nelle cose che faccio, giuste o sbagliate (per me, ovviamente, nel modo ostinato che ho di dire la mia).

Ogni azione è un inizio, lo è ogni pensiero, lo è - prima ancora - ogni immagine che produciamo o che ci viene indotta.

Eccola che ricomincia a parlare di sogni! Si, lo ammetto, non posso evitarlo: qualcuno dovrà pure ricordare che i sogni precedono i fatti. Una realtà che diamo un pò troppo per scontata, a tal punto dall'ignorarne le relative implicazioni.

Non me ne voglia l'amico borbottone, se adesso mi metto a citare la definizione che M. Heidegger dava nei suoi scritti del concetto di "autenticità". 
Lo prego di pazientare, magari sbuffando, ma di concedermi di esprimere compiutamente il mio pensiero.

H. sosteneva che  l'uomo, questo essere storico, che accade individualmente nel qui ed ora, sperimenta se stesso in un contesto di possibilità che richiedono attuazione. Egli indicava nella nascita un evento che "getta" l'individuo in un contesto ben definito (nasciamo all'interno di una società, che è caratterizzata da una cultura propria), situato, e che viene così a sottoporre il nato all'esperienza della "inautenticità". 

Il termine utilizzato allo scopo in lingua tedesca è Uneigentlichkeit, che contiene l'espressione Eigen - qui negata dal prefisso un -  che indica letteralmente il concetto di "proprio", "peculiare". 

   Ossia, la cultura, l'educazione, la tradizione all'interno della quale esperiamo la nostra esistenza, sono acquisiti, sono impropri. Lo sforzo che ogni individuo si trova a sostenere nel corso della vita, continua il filosofo, è quello di attuare la Eigentlichkeit, ossia il proprio modo, l'autenticità. Solo così egli potrà davvero esistere, ossia disvelarsi (exsistere).

E qui casca l'asino, intanto che l'amico borbottone -  spinto al limite massimo della sopportazione, lo so e me ne scuso - può riprendere a respirare, perché la domanda che emerge immediata, dopo quel gesto pensoso del capo che muove dall'alto al basso un paio di volte, con espressione accigliata, è la seguente: d'accordo, siamo individui storicamente situati, descritti come "progetti gettati in un mondo esistenziale", ossia interagiamo dinamicamente con contesti di interazioni inevitabili (l'espressione originale è tradotta solitamente con "abitare presso", in contrasto con l'idea di qualcosa che è contenuto in qualcos'altro - l'es.  dell'acqua nel bicchiere), proiettati verso l'attuazione delle nostre possibilità, ed esistiamo facendo, realizzando scelte in direzione di un modo che vuole essere il più proprio.

Ok, fin qui ti seguo, e mi piace pure!! .... E qual'è il criterio? Cosa mi assicura di star camminando in direzione della mia autenticità? Come convalido l'azione rispetto a ciò che viene descritto a tutti gli effetti come ciò che oggi è noto in termini di ISO ? Un Iso di natura, evidentemente...

La filosofia ha i suoi limiti, anche quella che si vuole opporre alla bieca metafisica. La risposta alla domanda, M. Heidegger, non la dà. Il discorso percorre sentieri interrotti (è anche il titolo di un'opera dello stesso autore), nel senso effettivo di interruzione di ragionamento.

L'autore sostiene che la consapevolezza del nostro essere finiti - prima o poi moriremo - coincide con la consapevolezza che quella condizione sarà la possibilità estrema, ossia la possibilità che nega ulteriori possibilità (la fine dei giochi, insomma), e questo ci riporta all'urgenza di usare la vita in modo consono, ossia autentico.

Questa è ovviamente una non risposta ad una domanda che l'autore evita di porre.

Ma la psicologia non si risparmia l'esercizio, e individua nelle immagini oniriche l'espressione simbolica della relazione tra il nostro "proprio" (l'eigen) e il mondo (presso cui esso abita): l'Iso di natura è un nucleo, un progetto che, nel corso del suo esistere storicamente (svelarsi, manifestarsi accadendo), interagisce secondo varie modalità: alcune funzionali, altre distoniche, non utili, o anche nocive. Le immagini oniriche - come un navigatore di tutto rispetto - descrivono la rotta in atto, evidenziando pericoli ed opportunità.


Poi bisogna essere in grado di leggerle... E questo è un altro bel paio di maniche!

 














domenica 5 febbraio 2017

X-MEN



Ieri ho visto un film della Marvel, uno dei tanti sugli X-Men: un genere di film che guardo con piacere, affascinata dagli effetti speciali, sempre più spettacolari e divertenti. Di tanto in tanto mi piace distrarmi con i film "spaccabumbum", come li chiamiamo con gli amici: film dinamici, rumorosi, dalla trama facile ma dagli effetti roboanti. Leggerezza e sorrisi per rilassarsi un pò.

Gli X-Men mi piacciono per lo stesso motivo per cui piacciono ai bambini: individui dotati di super-poteri, in grado di fare cose strepitose, ma un pò limitati dalla incapacità ad una perfetta gestione delle loro virtù. E poi sono personaggi un pò instabili, male integrati nel mondo, poco compresi e percepiti come diversi, da se stessi e dagli altri. 
Insomma, c'è dell'umano in tanta grandezza!

E chi non ha mai avuto esitazioni, dubbi o difficoltà nell'integrarsi con gli altri? Chi non vorrebbe pensare di avere doti particolari, magari ancora inespresse e non comprese che possano compensare l'apparente inettitudine? Come dire: non è facile farmi capire, ma questo accade perché sono speciale.

In effetti le cose stanno così: ognuno di noi, nella sua peculiarità, è speciale, dotato di caratteristiche evidenti, ma anche di talenti non immediatamente percepibili. Noi pensiamo e reagiamo a modo nostro, in modo non sempre comprensibile secondo le coordinate di chi ci osserva.

Ognuno di noi, insomma, ha del potenziale da esprimere e da affinare, da imparare a gestire: ecco il nucleo della differenza, la bella differenza, che fa l'individualità.
Ma siccome in noi vige anche l'istanza alla vita in comune e allo stare insieme, la bella differenza può rivelarsi un problema. Lo vediamo ogni giorno.

Politiche livellanti, quelle del tutto uguale, tutto comune, uno per uno e niente più, se perseguite, contribuiscono ad accrescere un certo senso di sicurezza e di appartenenza, ma tagliano fuori una ulteriore istanza che non è sano reprimere: la creatività che, a sua volta, nella urgenza di emergere, scalpita fino a venir fuori, in un modo o in un altro. 
E così ci risiamo, ricomincia il giro: la diversità, gli squilibri, le tensioni, l'esigenza di un nuovo ordine, di capi che sanno imporre in modo autorevole una stabilità rassicurante.
La storia ci insegna che spesso, a tal fine, l'autorità che fa da padrona è quella instabile creatura prodotta dalla violenza e dalla paura. 

L'autorevolezza, invece, il cui nome è stato tanto a lungo evocato nel tempo come un idolo chimerico di lontana memoria, è un mastice forte, ma lento a formarsi: la sua nascita richiede impegno costante e serio, la sua forza si nutre di ascolto, di motivazione, di osservazione, della capacità di riflettere; soprattutto richiede umiltà, e la disponibilità a mettersi in discussione e rivedere le proprie certezze. 
La forza che ne deriva non poggia quindi nella muscolarità fisica, ma si origina e cresce nel riconoscimento comune del vantaggio sicuro.

Tra i tanti suoi scritti, F. Dostoevskij ha lasciato un piccolo saggio che è stato oggetto di riflessioni accurate e controverse: "L'Ultimo Inquisitore". Attraverso il classico espediente del racconto nel racconto, l'autore ricava una nicchia ulteriore, all'interno della sua ultima opera - I fratelli Karamazov - per presentare al lettore una personalissima visione del concetto di amore. Così, due fratelli discutono alacremente su una storia che uno dei due ha intenzione di scrivere, e che ci espone, attraverso la narrazione, nella sua sofferta complessità.

Il racconto si apre in Spagna, ai tempi della Inquisizione: un periodo doloroso, annebbiato dalle sofferenze e dal fumo dei roghi nei quali migliaia di cosiddetti eretici trovano la fine dei loro giorni. Gesù - ci viene raccontato - decide di scendere in terra, tra i suoi figli, per vedere come se la cavano, anziché attendere - come promesso - che giunga la fine dei tempi. Non è dunque nella gloria del tempo compiuto, che il Figlio di Dio vuol presentarsi ai suoi figli, ma nella durezza di una vita vissuta in un'epoca grigia, che odora di morte e di lacrime amare.

Gesù cammina tra gli uomini, non usa parole, ma la sua forza e il suo amore attirano gente da ogni dove, che si avvicina e lo vuole per sè. Lo lodano, lo cercano, esprimono parole appassionate, finché il Grande Inquisitore dell'epoca lo intravede, lo riconosce e ne ordina l'immediata carcerazione.

Nel corso della notte avviene un dialogo intenso che vede coinvolti carceriere e carcerato, durante il quale i ruoli sembrano ribaltarsi e confondersi sull'onda di una emotività sincera, che si fa crudele e ingenua al contempo.

L'inquisitore, un uomo anziano, dai lineamenti consunti, ha viva negli occhi una luce sinistra: egli ha vissuto e lottato in nome di quel Dio che è rappresentato davanti ai suoi occhi, e che, riconosciutolo, adesso rifiuta, accusa, e bandisce per sempre.

 Egli non tollera quanto le sue parole hanno portato nel mondo: gli uomini son nati deboli, inetti e fragili, e Gesù, ostinandosi a lottare per dare loro la libertà, per enfatizzarne l'istanza, ha creato in essi ancora più turbolenze e dolori di quanti già non ne avessero in sè. A loro è stato promesso "il pane celeste", ma solo in pochi possono davvero raggiungerlo:

"E che colpa ne hanno gli altri, gli uomini deboli, di non aver potuto sopportare ciò che i forti poterono? Che colpa ha l'anima debole, se non ha la forza di accogliere così terribili doni? Possibile che tu sia venuto davvero solo agli eletti e per gli eletti? Ma se è così qui c'è del mistero e noi non possiamo comprenderlo!" *

L'accusa è profonda: il Figlio di Dio si è comportato con i suoi figli in modo crudele, come se li odiasse, come se li avesse creati per irriderli. L'amore diventa presuntuosa vanità del creatore, che non ha saputo cogliere il limite che la terrestrità impone alle sue creature: "stimandolo meno (l'uomo), avresti anche meno preteso da lui, e questo sarebbe stato più vicino all'amore".

Espone l'umana fragilità, l'Inquisitore, e lo fa attraverso una compassione sferzante. 
Gli uomini temono e rifuggono la libertà - ci dice - tanto da esser disposti a poggiarla ai piedi di altri affinché garantiscano, in cambio, una comune illusoria felicità mondana; ma il padre crudele ha risvegliato quel sogno e loro, tra dubbi e tormenti, "non sanno più davanti a chi inchinarsi, non sanno per cosa e come vivere, non sanno a chi donare la loro coscienza." 
La provocazione al risveglio addolora coloro che non sanno seguirla, coloro che vogliono il miracolo, il mistero, pronti ad accogliere l'autorità. 

Gli uomini preferiscono essere illusi ed adeguarsi - ci dice l'autore attraverso le labbra dell'Inquisitore - piuttosto che seguire un cammino faticoso verso una felicità che non sono in grado di guadagnare.

Ed ecco che in questa visione il gesto di amore più grande sembra essere invece ciò che di più odioso un uomo possa fare al suo simile: ingannare e guidare gli uomini verso la propria morte e distruzione, protraendo l'illusione che durante il cammino siano protetti e resi felici. 

L'Inquisitore, nella piena coscienza della mostruosità insita nella strategia sopra descritta, ritenuta per lui inevitabile, vive e consuma in prima persona quello che per lui è il sacrificio più grande che un uomo possa offrire ad un altro, in nome dell'amore universale. 

Un bacio silente tra le due figure sigilla alla fine lo scambio: al vecchio trema un pò il cuore, ma non cambia la sua posizione.


Ed eccola qui: l'autorità. Quella che in cambio di una pace apparente porta via la possibilità di riuscire, perché non consente la prova. Lo fa in nome dell'amore, di una comprensione e di una compassione universale, e soffoca i pochi in funzione dei molti, rende impossibile a tutti afferire alla schiera dei pochi affinché non diventi una schiera dei molti.

La figura del Cristo è stata descritta, nel tempo, in diverse versioni; qui emerge la stessa terribile immagine che la Chiesa Romana ha escluso dalla cultura ufficiale, ma è viva e potente nei vangeli apocrifi

Quel Cristo veniva in terra per dividere, non per unire; spingeva le genti a fare le scelte più dure, ad abbandonare legami, a lasciarsi i morti alle spalle. 
Uomini invitati a fare la scelta, e a non guardarsi più indietro.
 Una scuola per pochi, la sua, per quelli più forti - direbbe l'Inquisitore: nella Vita non c'è spazio proprio per tutti. Amore è selezione, e spinta suprema per coloro che hanno la volontà di ascoltare, e la forza di fare: "a chi ha sarà dato e sarà nell'abbondanza; e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha" (MT13,12). 

Una visione che ferisce l'animo già grave di chi pure ha commesso atti estremi - l'Inquisitore - e che vorrebbe salvare l'umanità tutta, quasi a riscatto dei morti che si è lasciato alle spalle.

Dostoevskij era un uomo infelice, che ha molto sofferto, che ha vissuto "nella casa dei morti", ha studiato i suoi simili, riportando su carta quanto aveva osservato e donandolo al mondo come suo testamento - un testamento prezioso. 
E forse è davvero così: l'uomo cerca miracoli, invoca l'autorità, e teme la libertà.

 Ma non ogni uomo. 

Piuttosto non sa riconoscerla, la libertà, non sa usarla, e non sa comprenderne il senso. A volte preferisce davvero non farlo. Ma alcuni avvertono in sè una spinta profonda, e patiscono la strenua ricerca di risposte diverse, quelle che consentano loro di saper cosa fare della propria esistenza, e di riceverne, infine, nell'intimo proprio quel sano, personale, ed egoistico godimento.

La "libertà" assume per tali uomini il senso del fare, nel rispetto di ciò che la natura comanda. Ad ognuno per sè, in maniera diversa, tra spini e ruscelli.

La stessa esigenza a cui son rivolti quei bimbi, che vorrebbero avere i super-poteri di uomini strani, veri mutanti, ovvero individui liberi di uscire e rientrare dalle forme (e dai modi) consuete attraverso talenti che si trovano dentro, e che non sanno bene gestire.
Poteri, talenti per fare di più e per fare in modo migliore.

Le istanze devono esser seguite, e vanno affinate: esiste una scuola per farlo, e inizia in ognuno di noi.
Comincia dai sogni.

Non si può rinunciare alla vita: l'amore per gli altri deve partire innanzitutto da sè: se imparo a trovare me stesso son pronto ad incontrare anche gli altri.



  • F. M. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Garzanti, Milano, 1979, vol. I, pagg. 263 e 282.
  • il testo lo trovate cliccando qui