Il Mio Blog non vuole essere un monologo, ma un invito all'incontro: pertanto sono graditi i commenti e il succedersi degli scambi che ne conseguono.
Buona lettura!

domenica 24 ottobre 2021

Lingua Madre

 

  

L’immagine della Monnalisa con le cuffie in testa, il volto di De André sovrapposto all’originale: Lingua Madre è il podcast di Franco Pistono, maestro di musica, letterato e pedagogista. Direi anche poeta e saggista, direi persona brillante e dai vari talenti: uno spirito vivo che ho avuto il piacere di conoscere.

Ogni mercoledì un appuntamento, in una sperimentazione progettata ad un anno, poi vedremo. Franco mi dice che si diverte, che ha il suo angolo operativo che lo attende: il microfono, la sedia, la situazione. Lui che prepara l’inizio e la coda, lui che registra, lui che definisce i canali di rilancio.

Lingua Madre è il titolo stabilito perché questo lavoro nasce dalla passione per la lingua, la lingua madre, che, in quanto lingua e in quanto madre, è generatrice di mondi: pensieri e parole si uniscono nella generazione del senso, ed è proprio a questo che Franco vuol far pensare. Ciò che lo affascina e con cui ci corteggia.

 La sua voce nello sfondo, mentre si uniscono i punti – per usare le sue parole – in un viaggio che scivola intelligentemente tra forme espressive diverse: l’uomo che espone sé stesso, a suo modo, in tempi diversi, parlando di sé. Interessante il connubio di musica, letteratura e scultura: vita che scorre nella sua poesia.

E se l’Antologia di SpoonRiver ha ispirato  De André, il canto di questi riesce a evocare in Pistono un ricordo altro, apparentemente lontano: dalla musica alla danza, alla corporeità statica che rompe gli schemi e si fa movimento, facendo lo spazio in modalità circolare, emotiva, spirituale: la Menade danzante di Scopas, un’opera meravigliosamente moderna che ha visto la luce nel 4 secolo a. c.

 Il suonatore Jones, De André lo chiama per nome perché da solo esprime, incarnandolo, un modo forte di assaporare la vita fino alla consunzione letale, fin quando ”resterà solo un flauto spezzato, ricordi  e nessun rimpianto”.

La terra si mostra nei suoi molteplici aspetti: terra arsa e polverosa che va coltivata, la terra che consente benessere a chi si frega le mani per aver venduto i propri buoi, e la terra che sostiene la danza, smossa dal vortice vivo del tessuto di una gonna: la terra che nutre non solo le membra nelle sue esigenze essenziali, ma arriva fino allo spirito, accendendo memorie e pensieri, emozioni che risuonano dentro esigendo di essere esposte e condivise. La terra che è il cuore, e “non è possibile pensarla migliore”.

Vibrazioni, suoni e movimento svelati in un canto voluto, impellente e conosciuto, un canto che Jones – e con lui tutti noi – non può più smettere di suonare, soprattutto adesso che anche gli altri lo sanno che lui sa suonare, a lui che piace lasciarsi ascoltare

Libertà, libertà di esistere attraverso emozioni, oltre le necessità più stringenti, sulle note di un cuore che vibra.

Franco ci dice con tono fermo che a lui piace accostare suoni e parole, lo fa con senso estetico ed intento educativo: il linguaggio crea mondi, li svela evocandoli, accompagnandoci in quella terra di mezzo tra l’esibito e l’alluso.

Un invito gentile, il suo, a muovere un passo e poi altri ancora, nella danza del tempo che abbiamo per essere uomini.



 



 

 

Hibaku jumoku

 


Ottobre, il mese dell’autunno. In questo periodo le foglie si fanno scure e cadono, e si fanno portare via dal vento, che le rovescia a più riprese sul terreno, trascinandole un po', per poi portarle su, lontano.

 Ottobre è il mese in cui certi animali e certe piante si riposano. E invece, proprio in ottobre, sento parlare di semi, di germogli e di piantine, e del viaggio che intraprendono alcune di queste creature per il mondo, con lo scopo di diffondere un messaggio di pace e di speranza rigeneratrice.

 Sto parlando degli Hibaku Jumoku, (in italiano, gli alberi bombardati), ossia gli alberi sopravvissuti al bombardamento atomico che ha devastato Hiroshima il 6 agosto del 1945.

Ma andiamo per gradi: Tiziana Volta, attivista per la pace, è nel video davanti ai miei occhi, sono le 20.00.  Con grande interesse ascolto la sua voce, sostenuta da una certa emozione, raccontarmi del progetto giapponese, del progetto italiano connesso, e di altre attività di cui è promotrice: il filo comune sta nella parola PACE.  Sento così parlare della Marcia Mondiale per laPace e la Nonviolenza  – da lei più volte coordinata -, e della straordinaria partecipazione agli eventi promossi attraverso l’associazione internazionale umanista in cui opera, WorldWithout War and Violence.

Questo incontro è nato da una telefonata di pochi giorni prima in cui Daniela Saltarin, Direttore tecnico di Plant for the Planet Italia, mi informava con entusiasmo dell’accordo concluso con Unical, l’Università della Calabria, per la messa a dimora di 4 pianticelle nate dai semi degli Hibaku jumoku.

Apprendo che dalla primavera 2020 i semi degli Abombed Tree sono spediti all'orto botanico di Perugia, attraverso un accordo tra PEFC Italia con il Dipartimento di Scienza Agrarie, Alimentari e Ambientali dell'Università di Perugia, Mondo senza Guerre e senza Violenza e Green Legacy Hiroshima.

La curiosità è esplosa, e con essa la ricerca.

Torniamo quindi al Giappone.

Lo sappiamo, il bombardamento atomico ha devastato anime e materia, ma – a dispetto di quanto si credeva allora - qualcosa è rimasto: le strutture di pochi edifici, alcuni alberi e certe persone; testimonianze di un mondo ferito che non sono rimaste silenti. 

I Giapponesi li chiamano Hibaku, “i bombardati”, rifiutando il termine scontato di “sopravvissuti”, nel rispetto di chi ha concluso la propria esistenza a causa di quell’evento. Questi bombardati espongono sé stessi allo sguardo del mondo raccontando a tutti, in maniera diretta ed universalmente comprensibile, la devastazione commessa. 

Norito Sakashita, una Hibakusha (persona esposta ai bombardamenti), raccontando l’esperienza vissuta e riportata dai familiari allora presenti, ci dice che per 10 anni il Giappone ha secretato l’informazione che si trattasse di un bombardamento atomico, e la gente continuava a morire, negli anni, per le conseguenze delle radiazioni. Tutti hanno vissuto, ma pochi sapevano davvero.

La città è stata ricostruita, e i resti degli edifici sono diventati musei o strutture della memoria.

 A pochi km dall’epicentro sono stati rinvenuti alberi in vita che, nonostante i segni tuttora evidenti dell’offesa subita, nell’arco di pochi mesi hanno iniziato a germogliare dalle radici, con le dovute cure hanno poi prodotto frutti, e poi semi. La terra ne aveva protetto le parti basse, e così la massa del tronco. Da un calcolo postumo sono stati individuati circa 170 esemplari superstiti.

Come ha più volte spiegato Stefano Mancuso, neurobiologo vegetale di fama mondiale, le piante hanno una capacità di sopravvivenza e di rigenerazione superiore a quella di altri viventi per via della loro “struttura modulare”, che rende possibile la distribuzione delle funzioni su tutta la superficie. In tal modo, se anche una loro parte viene distrutta o fagocitata – come spesso avviene - da altri viventi, l’organismo continua a vivere e a svolgere le sue attività, e a riprodursi. 

E così è stato, tanto che ancora oggi, a Hiroshima, si erge maestoso un salice piangente, l’albero più vicino alla zona dell’esplosione (700 mt circa dall’epicentro), che è sopravvissuto rigenerandosi in parte, nonostante la sua distruzione quasi completa.

Oggi siamo alla terza generazione di piante nate dagli Hibaku jumoku, e Green legacy Hiroshima, una associazione di volontariato giapponese sviluppatasi nel 2011 e sostenuta dall’istituto dell’Onu per la formazione e la ricerca (UNITAR), ha avviato una campagna di distribuzione di questi semi in giro per il mondo con l’intento di diffondere un messaggio importante in maniera esemplare: la natura è rinascita, e noi ne siamo parte. 

E la tecnologia, come in questo caso, dovremmo utilizzarla per alimentare la vita e diffonderla, non per distruggerla.

È importante infatti l’impegno – anche tecnologico - per la cura e la diffusione dei semi, che vengono seguiti nel loro sviluppo anche successivo; la spedizione avviene infatti dopo severi accertamenti e attenta valutazione delle condizioni e della gestione cui essi andranno incontro – a partire dal viaggio fino al raggiungimento del luogo di destinazione -, passando prevalentemente per orti botanici e istituzioni, fino ad enti scolastici e formativi.

Ad oggi una trentina di paesi hanno accolto questi semi della pace, figli della sopravvivenza, e la strada è aperta perché diventino presto molti di più.

 Chi fosse interessato ad avere informazioni sui semi della pace può scrivere direttamente a: alberipacehiroshima@gmail.com

 


 


 

sabato 9 ottobre 2021

Piccoli Architetti

 


Sabato 2 ottobre, giro la chiave nel quadro della mia auto e mi avvio verso Artena, un borgo del Lazio davvero affascinante. 

Il primo impatto è sorprendente: di colpo, dinanzi agli occhi si erge questo paese antico, attorcigliato su un’altura – siamo a 600 mt – “come le spirali di un intestino”, dice qualcuno. Parcheggio vicino alla porta principale come da indicazioni, e inizio a inerpicarmi per una salita piuttosto ripida. In basso la vallata, cosparsa di costruzioni moderne.

La porta mi accoglie con draghi e pallottole di pietra, la supero, entro nella piazza e prendo le scale in un vicolo laterale, verso la chiesa di S. Stefano. Alle 15.30 sono lì: appuntamento rispettato!

La porta è aperta, e l‘organizzatore mi invita ad entrare.

Una trentina di bambini muniti di matite colorate se ne stanno molto concentrati, seduti attorno ad un lungo tavolo, a disegnare su un’ampia tovaglia di carta, ognuno nel proprio spazio. Chi con la mamma vicino, chi si consulta col vicino, qualcuno tiene stretto il suo strumento di lavoro, quasi temesse di perderlo. Vedo un bimbo inginocchiato sulla sedia, totalmente assorbito: non ha occhi per nessuno tranne che per quella macchina “futurista” che ha appena disegnato, con le belle strisce rosso fuoco a indicane la velocità.

Con loro è l’architetto Natasha Pulitzer, una donna entusiasta, inarrestabile e dal carisma coinvolgente. Si divertono tutti: i bambini, gli adulti presenti, l’architetta che, in veste di maestra, saltella da una parte all’altra, tra le domande dei bambini e la lavagna, su cui disegna a sua volta dando spiegazioni. Sorride l’organizzatore, che osservo piegato sul disegno di un bambino mentre dice con entusiasmo che è un disegno bellissimo.

Sorrido anche io, un po' commossa, nel vedere tanta vita in un luogo così insolito: le chiese sono sempre silenziose, in ombra, e ospitano adulti riflessivi…

È l’ora dei saluti, e in poco tempo i disegni vengono raccolti, i tavoli smontati, le attrezzature riposte. Aiuto a sistemare le panche utilizzate mentre ascolto le mamme entusiaste chiedere il coinvolgimento in altri eventi futuri.  Una piccola delegazione di bambini circonda Natasha con un sacchetto da cui, uno ad uno, tirano fuori piccoli doni fatti da loro, oggetti portafortuna e di quotidiana utilità.

 A Natasha brillano gli occhi, e loro non sembrano più voler andar via.

Usciamo, e nella piazza non posso non avvicinare questa energica signora, così mi lascio travolgere dalle sue parole. Non è stanca, non credo sia proprio capace di stancarsi. Le chiedo cosa è accaduto, nel pomeriggio, in quella chiesa, attorno a quei tavoli; le chiedo cosa significhi “voler insegnare ai bambini l’architettura”, e dalle sue risposte sperimento, ancora una volta, quanto siano limitanti le nomenclature nella comprensione dei fatti.

Tra un sorriso e un sorso di acqua alla menta – forse non si stanca, ma l’arsura domina – N. è di nuovo in versione maestra, e mi spiega che lei ci tiene a insegnare ai bambini a stare tra le cose. Mi spiega che li ha messi intorno a un tavolo perché si sentano parte del mondo, che imparino a cogliere la tridimensionalità di quanto esiste. E poi li spinge ad osservare.

Mi indica la facciata del palazzo che abbiamo davanti, e in pochi minuti sveglia anche il mio sguardo. Seguo le sue indicazioni e noto particolari trascurati: la crepa, i fiorellini, quei cavi che sbucano, e quel vaso lassù, in alto, che denuncia la presenza di un balcone. E chissà quel balcone come sarà…

Disegnare impone attenzione, fa capire che ci sono dimensioni, distanze, proporzioni e illuminazioni diverse… ci costringe ad osservare. Ritorno con la mente ad una scenetta a cui avevo assistito poco prima, all’interno della chiesa: un bambino le aveva mostrato con fierezza il disegno della sua automobile e alla sua provocazione - “E dove si muove la macchina; forse vola?” - la manina ha disteso una strada subito sotto le ruote; gli occhi bassi in una espressione imbarazzata.

Natasha mi dice che gli adulti devono apprendere sin da bambini cos’è la realtà, perché ci viviamo dentro. Ripenso al sole che le ho visto far inserire sopra il tetto di una casa disegnata: “a nord o a est?”.

La bioclimatica, come l’architettura, non deve restare una definizione difficile, ma l’indicazione di una modalità di esistenza. Anche per i bambini.

Un esperimento riuscito, quello cui ho assistito, in cui si è dimostrato che basta porre le condizioni per far apprendere ai bambini col divertimento perché loro apprendano impegnandosi, e si divertono.  E di questo ne beneficia tutta la comunità.

Dovremmo ricordarlo più spesso ai maestri delle nostre scuole…