Sabato 2 ottobre, giro la chiave nel quadro della mia auto e mi avvio verso Artena, un borgo del Lazio davvero affascinante.
Il primo impatto
è sorprendente: di colpo, dinanzi agli occhi si erge questo paese antico, attorcigliato
su un’altura – siamo a 600 mt – “come le spirali di un intestino”, dice
qualcuno. Parcheggio vicino alla porta principale come da indicazioni, e inizio
a inerpicarmi per una salita piuttosto ripida. In basso la vallata, cosparsa di
costruzioni moderne.
La porta mi accoglie con draghi e pallottole di pietra, la
supero, entro nella piazza e prendo le scale in un vicolo laterale, verso la
chiesa di S. Stefano. Alle 15.30 sono lì: appuntamento rispettato!
La porta è aperta, e l‘organizzatore mi invita ad entrare.
Una trentina di bambini muniti di matite colorate se ne
stanno molto concentrati, seduti attorno ad un lungo tavolo, a disegnare su un’ampia
tovaglia di carta, ognuno nel proprio spazio. Chi con la mamma vicino, chi si
consulta col vicino, qualcuno tiene stretto il suo strumento di lavoro, quasi
temesse di perderlo. Vedo un bimbo inginocchiato sulla sedia, totalmente
assorbito: non ha occhi per nessuno tranne che per quella macchina “futurista”
che ha appena disegnato, con le belle strisce rosso fuoco a indicane la
velocità.
Con loro è l’architetto Natasha Pulitzer, una donna entusiasta, inarrestabile e dal carisma coinvolgente. Si divertono tutti: i bambini, gli adulti presenti, l’architetta che, in veste di maestra, saltella da una parte all’altra, tra le domande dei bambini e la lavagna, su cui disegna a sua volta dando spiegazioni. Sorride l’organizzatore, che osservo piegato sul disegno di un bambino mentre dice con entusiasmo che è un disegno bellissimo.
Sorrido anche io, un po' commossa, nel vedere tanta vita in
un luogo così insolito: le chiese sono sempre silenziose, in ombra, e ospitano
adulti riflessivi…
È l’ora dei saluti, e in poco tempo i disegni vengono
raccolti, i tavoli smontati, le attrezzature riposte. Aiuto a sistemare le
panche utilizzate mentre ascolto le mamme entusiaste chiedere il coinvolgimento
in altri eventi futuri. Una piccola
delegazione di bambini circonda Natasha con un sacchetto da cui, uno ad uno,
tirano fuori piccoli doni fatti da loro, oggetti portafortuna e di quotidiana utilità.
A Natasha brillano
gli occhi, e loro non sembrano più voler andar via.
Usciamo, e nella piazza non posso non avvicinare questa
energica signora, così mi lascio travolgere dalle sue parole. Non è stanca, non
credo sia proprio capace di stancarsi. Le chiedo cosa è accaduto, nel
pomeriggio, in quella chiesa, attorno a quei tavoli; le chiedo cosa significhi “voler
insegnare ai bambini l’architettura”, e dalle sue risposte sperimento, ancora
una volta, quanto siano limitanti le nomenclature nella comprensione dei fatti.
Tra un sorriso e un sorso di acqua alla menta – forse non si
stanca, ma l’arsura domina – N. è di nuovo in versione maestra, e mi spiega che
lei ci tiene a insegnare ai bambini a stare tra le cose. Mi spiega che li ha
messi intorno a un tavolo perché si sentano parte del mondo, che imparino a
cogliere la tridimensionalità di quanto esiste. E poi li spinge ad osservare.
Mi indica la facciata del palazzo che abbiamo davanti, e in
pochi minuti sveglia anche il mio sguardo. Seguo le sue indicazioni e noto
particolari trascurati: la crepa, i fiorellini, quei cavi che sbucano, e quel
vaso lassù, in alto, che denuncia la presenza di un balcone. E chissà quel
balcone come sarà…
Disegnare impone attenzione, fa capire che ci sono
dimensioni, distanze, proporzioni e illuminazioni diverse… ci costringe ad
osservare. Ritorno con la mente ad una scenetta a cui avevo assistito poco prima,
all’interno della chiesa: un bambino le aveva mostrato con fierezza il disegno
della sua automobile e alla sua provocazione - “E dove si muove la macchina;
forse vola?” - la manina ha disteso una strada subito sotto le ruote; gli occhi
bassi in una espressione imbarazzata.
Natasha mi dice che gli adulti devono apprendere sin da
bambini cos’è la realtà, perché ci viviamo dentro. Ripenso al sole che le ho
visto far inserire sopra il tetto di una casa disegnata: “a nord o a est?”.
La bioclimatica, come l’architettura, non deve restare una
definizione difficile, ma l’indicazione di una modalità di esistenza. Anche per
i bambini.
Un esperimento riuscito, quello cui ho assistito, in cui si
è dimostrato che basta porre le condizioni per far apprendere ai bambini col
divertimento perché loro apprendano impegnandosi, e si divertono. E di questo ne beneficia tutta la comunità.
Dovremmo ricordarlo più spesso ai maestri delle nostre
scuole…
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