Era da giorni che volevo vederlo, era da un po' che miravo ad
acquistare quel biglietto, e alla fine mi sono decisa.
Dopo una lunga e difficile giornata di lavoro, con la
stanchezza sulle spalle e nell’anima, ho atteso le ore 20.00 e mi sono
addentrata in una piccola sala cinematografica dopo aver comprato un biglietto
per The Brutalist.
Avevo letto solo poche righe di commento per non guastare la
visione, evitando l’ipotetico possibile inganno del trailer: mi ero solo
informata di cosa fosse il Brutalismo, quel movimento architettonico che dava
il titolo al film.
Già stanca e demoralizzata per gli avvenimenti della
giornata, sono stata indirizzata in una sala molto piccola, dalle poltrone
rovinate, in cui regnava una aria stantia. Sola fino a pochi istanti dall’inizio
del film, mi ha raggiunta un esiguo manipolo di utenti mangiatori, con le
braccia colme di ciotole di popcorn, patatine e bottigliette varie.
Finalmente il buio, ma non il silenzio: denti e pop corn.
Per buona parte del film. Per fare il bis dopo l’intervallo.
Mi concentro sulla visione, il volume molto alto, ma non
abbastanza da coprire il ruminare degli astanti.. Gli interpreti parlano
ungherese e i sottotitoli scorrono troppo velocemente sopra immagini dinamiche:
sono in giallo, e non è facile coglierli. Mi chiedo se non ho sbagliato giorno:
la stanchezza, un cinema di pessima qualità, una compagnia poco rispettosa, il sospetto
di essere incappata anche nella giornata delle proiezioni in lingua originale, e
tre ore e mezzo di visione all’orizzonte...prima di mezzanotte non se ne esce:
ce la farò?
In pochi minuti,
però, l’audio suona la mia lingua...Almeno questa è andata.
In pausa dovrò ricordarmi di andare a pagare il biglietto
per il parcheggio, perché il tempo della proiezione eccede quello previsto
normalmente, e rischio di restare dentro: il ragazzo della biglietteria si è
raccomandato: “non è detto che dopo, qui, trovi più qualcuno”.
Una serata difficile.
Assisto a una proiezione intensa e complessa, una storia
pesante e grave, con attori bravissimi ed una regia magnifica. Finisce il primo
tempo e controllo l’orologio: quasi non ci credo che sono quasi le 23!
Corro a saldare il
piccolo debito e al ritorno incontro i vicini di nuovo carichi di derrate
alimentari. Ricomincia il convulso scricchiolio dei denti e, fortunatamente,
ricomincia anche il film. Rimango appesa
fino all’ultima scena, rimango seduta durante lo scorrere dei titoli di coda.
Rimarrei ancora lì, presa dalla forte emozione che sto vivendo. Ma la stanza è
ormai priva di ossigeno, e la macchina è prigioniera del parcheggio deserto. La
mia abitazione è lontana.
Nonostante l’ora
tarda la stanchezza si è dissolta, sostituita dal grande senso di disagio, di
dolore e di ammirazione che non so dominare.
Si riaccende quella cupa ombra che mi ha accompagnata per giorni dopo il
viaggio in Polonia…
Alla fine non è l’arte, non è una biografia, non è una
storia: è la fatica del vivere, dell’uomo sballottato in un mondo in cui l’altro
è scomodo, è sgradito, viene usato, e dove il rispetto è solo una nebbia che si
impiglia in parole per poco davvero credibili. La violenza morale si fa carne
nella violenza fisica: di chi esercita, e poi anche di chi subisce.
Sono giorni che ci penso. Ciò che conduce l’esistenza degli
uomini non è la ragione, non è nemmeno la promessa di un guadagno: sono le
emozioni, quelle che scaturiscono da quanto vissuto. E le più potenti sembrano
essere proprio quelle che non sono state gestite, che non hanno ricevuto la
giusta attenzione, che non hanno subito elaborazione. Rimangono lì, quegli aghi
pungenti, li comprimiamo, e lasciamo che si spingano sempre più in fondo, fino
a divenire invisibili. Come una piccola zecca, che si insinua nella pelle e va
giù, a nutrirsi del nostro sangue, causando malattie che possono addirittura
far morire l’ospite. E intanto noi attraversiamo
le nostre giornate, ci imbattiamo negli altri, svolgiamo i nostri compiti, assolviamo
agli impegni e affrontiamo questioni. L’ago-zecca è sempre lì sotto, che punge,
che succhia e che ammala.
E quando poi ci incontriamo, quando poi stiamo insieme, la
distorsione si scontra e cozza con quella di altri. E scoppiano le guerre di
ogni tipo: verbali, sociali, emotive… Fino a quelle militari.
E’ un bel parlare nei talk show, attraverso i social e
dentro i bar: perdiamo l’umanità laddove non curiamo noi stessi, laddove non
vediamo e non ascoltiamo i nostri bisogni primari e le nostre ferite
primordiali. Per arrivare agli altri dobbiamo partire da noi. Radicalmente, dal
profondo.
Solo riconoscendo noi
stessi riconosceremo gli altri, e forse, potremmo iniziare a rispettarli.
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