Petr Alekseevic Kropotkin, noto per le sue manifeste tendenze anarchiche, fu principe russo alla corte dello Zar Alessandro II, prigioniero politico e rivoluzionario in fuga, ma soprattutto fu un grande scienziato (nominato segretario della sezione geofisica della Società russa di geografia) e filosofo etico.
Gli studi sul
naturalismo nei quale si era immerso lo portarono a definire una visione etica
dell’esistenza che oggi sembra impossibile ignorare.
Essendo al contempo un
attento osservatore della vita animale e un appassionato studioso di
storia, Krapotkin arrivò e definire una sua
visione dinamica dell’esistenza, caratterizzata dalla condizione di
interconnessione continua, concausa di crescita evolutiva costante: tutto muta
costantemente in qualcos’altro.
In Petr le osservazioni dei fatti della natura
trovarono facile riscontro nel contesto delle società umane e, qui come lì, in
sintonia con Darwin – e in contrasto furibondo con certi suoi epigoni – si
convinse del fatto che la vita umana ed animale poggia sui fondamentali
principi di solidarietà e cooperazione: una visione in netto contrasto con la
tendenza del momento, che predicava la lotta e la prevaricazione del più forte
sul più debole.
In natura, sosteneva K., non esistono leggi
prestabilite, ma fenomeni indeterminati, e l’armonia è sempre il risultato di
un lungo processo di acquisizione e trasformazione.
Dalla natura all’etica, dunque, attraverso lunghi anni
di osservazione dell’ambiente: flora, fauna, individui e società: in tutti è
presente, per natura, la disposizione a ciò che poi egli definì il
mutuo appoggio, uno strumento determinante ai fini stessi dell’evoluzione.
In quest’ottica, il processo evolutivo non poggia
sulla prevaricazione ad opera dei più forti, ma sulla capacità di imparare ad
unirsi, che è la condizione essenziale per il sostenersi reciproco in direzione
del prosperare della comunità.
Se Darwin sosteneva che l’evoluzione graduale delle
specie rende più evidenti e forti gli istinti sociali, Krapoktin andava oltre,
fino a definire il senso di giustizia come sentimento profondo, ben radicato
persino nelle società più primitive, superato in modo “eroico” solo dalla
morale, che consta nell’abnegazione o sacrificio di sé stessi a beneficio degli
altri. Non più dunque lotta per la sopravvivenza, secondo il canto della sirena
hobbesiana, ma mutuo soccorso.
A questo concetto l’autore ha dedicato un bellissimo
libro dal medesimo nome (Il Mutuo soccorso, 1902), frutto dell’aggregazione di sezioni composte nell’arco di sei anni di lavoro
(1890-96).
Nel suo lungo percorso di studioso e scrittore, K. ha illustrato chiaramente, attraverso numerosi esempi, la naturale tendenza umana ed animale alla solidarietà, quale risultante della dinamica di due istinti difficilmente separabili: egoismo e reciprocità.
La solidarietà germoglia in seno all’istinto
di sopravvivenza - mi unisco per sopravvivere – ed evolve in senso
volontario-intellettivo nei popoli più progrediti (la dimensione etica).
La storia ha dimostrato – sono numerosi gli esempi pratici descritti nel libro - quanto la legge del reciproco aiuto sia più importante di quella per la via del singolo: l‘egoismo individuale può esser raggiunto solo in quello collettivo, e trova il limite naturale in quella solidarietà di fondo che è comune da sempre alla specie umana e a quella animale.
La vita sociale promette
agevolazioni, protezione e piaceri che il singolo, di per sé potrebbe faticare
a raggiungere, seppure fosse mai in grado di arrivarvi a tal modo.
Se “la lotta risponde all’esigenza di nutrizione (competizione) e
l’associazione invece al bisogno di prolungare l’esistenza della specie”,
l'aiuto reciproco si fa regola nelle comunità dei viventi, tanto che pure “Le
formiche e le termiti hanno ripudiato la «legge di Hobbes» sulla guerra, e se
ne trovano più che bene” (cit.). Le specie che, volontariamente o no,
abbandonano quest'istinto di associazione, sono condannate a sparire
rinunciando per sempre alla probabilità di evoluzione e di sviluppo
dell’intelligenza, a dispetto di un gran dispendio di energia. Coloro che si
adattano alle condizioni ambientali rendono possibile la conservazione dei loro
geni nel tempo e nello spazio, favorendo quell’interessante lento e variegato
processo che è l’evoluzione.
Dalle prime comunità alle società organizzate si è passati attraverso la
comprensione della necessità di unire le forze, tanto più ove la lotta per la
vita si mostra più cruda: “indivise o no, raggruppate o sparse nei boschi, le
famiglie dimorano unite in villaggi comuni; parecchi villaggi si raggruppano in
tribù e le tribù in federazioni. Tale fu l'organizzazione che si svolse fra i
pretesi «barbari», quando essi incominciarono a stabilirsi in un modo più o
meno duraturo in Europa”.
Dalla famiglia alle comunità rurali fino alle società moderne: si ripete lo
schema. Le stesse città del Medioevo costituirono lo sforzo, su ben più vasta
scala di quella del comune rurale, di organizzare una forte unione di aiuto e
mutuo appoggio per il consumo, la produzione e la vita sociale nel suo insieme,
consentendo libertà di espressione al genio creatore di ciascun gruppo nelle
arti, nei mestieri, nelle scienze, come nel commercio e nella politica. La
città era un organismo completo perché rappresentava un insieme di funzioni
vitali: solo questo permise di arrivare all’età del Rinascimento.
L’aiuto reciproco, descritto al pari di una legge di natura, viene identificato dal filosofo come fattore essenzialmente evolutivo, tanto da rimanere attivo anche nella società moderna declinata sulla china dell’individualismo deresponsabilizzante che fa rottura con la comunità, discostandosene. L’accumulo di ricchezze da parte di alcuni (la classe borghese) rispetto ad altri ritenuti quindi non degni (i contadini) ha sciolto i legami sacri, annullando il senso di comunità e condannando i singoli all’uscita dall’Eden.
L’allontanamento dalla società rurale per la predilezione
manifestata verso l’industria estraniarono l’uomo dalla sua natura.
Vennero ad organizzarsi i potenti Stati, che si imposero come unici rappresentanti legittimi dei rapporti tra i soggetti: “Il federalismo ed il «particolarismo» erano i nemici del progresso di cui lo Stato era il solo iniziatore, la sola vera guida”.
Tra il 18° e il 19° secolo l’Europa cadde in una disgregazione dispotica che annullava l’individuo come membro di comunità, come “ente sociale”, e lo riduceva ad entità deresponsabilizzata verso il simile, e obbediente all’autorità dispotica del potente accentratore.
Una tendenza che, nella società attuale, traspare nella propensione diffusa al forte individualismo e all’isolamento del singolo, in forte contrasto con le comunità rurali di cui parlava K. E ancora, gli ultimissimi eventi legati alla situazione pandemica in corso, ci restituiscono una umanità disgregata, impaurita e confusa, che guarda con sospetto il simile ed è invitata ad attuare - per motivi di sicurezza, certo - la sgradevole pratica del “distanziamento sociale”.
Eppure, al di là della paura, delle regole e del
sospetto, sono numerosi gli esempi di solidarietà e vicinanza che questo essere
uomo esprime e pone in atto costantemente: dagli atti spontanei di aiuto
reciproco nei quartieri agli scioperi collettivi degli affitti, alle ceste
sospese degli alimenti, ai cori di solidarietà morale dai balconi; le persone
si sono unite e hanno manifestato reciproca vicinanza e solidarietà.
Ecco che il mutuo appoggio si rivela per quello che k. ci ha descritto: non un fenomeno meramente culturale, ma un istinto vitale universale, un motore di sopravvivenza decisivo per la specie, una legge della vita.
Petr
sosteneva che proprio la capacità di unirsi e cooperare distingue le specie più
evolute, non la loro tendenza a opporsi e competere individualisticamente.
Per chiudere con l’autore: “quali si siano le nostre opinioni sulla prima
origine del sentimento o dell'istinto del mutuo appoggio, che gli si assegni
una causa biologica o soprannaturale, è forza il riconoscerne la esistenza fin
nei più bassi gradini del mondo animale; e da essi possiamo seguire la sua
ininterrotta evoluzione”.
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