Un’amica mi invia una rassegna di articoli pubblicati
dal Sole24ore e mi chiede cosa ne
penso. Leggo e mi infiammo, come spesso accade.
Il primo parla di come il linguaggio attuale, utilizzato, diffuso e rilanciato dai social media non faccia che impoverire la nostra capacità di articolare il pensiero: una lingua povera dice poco, non rispetta le differenze né le sfumature, ci spinge ad un fare frettoloso e pressapochista.
Questo è effettivamente un fenomeno
vivissimo con cui mi confronto nel corso delle giornate lavorative: studenti
universitari che si esprimono in modo stringato e incomprensibile, in maniera
confusa, e si infastidiscono se si chiedono loro chiarimenti.
Nel linguaggio quotidiano si infiltrano espressioni televisive, neologismi di giovani influencer, si dimentica la grammatica e si ricorre spesso a emoticons e abbreviazioni personali.
Scrivere è diventato faticoso
e fastidioso perché toglie tempo.
Il pensiero va alla mia adolescenza, alle lunghe lettere scambiate con amici lontani in cui raccontavo eventi per me significativi e descrivevo emozioni personali.
Quei fogli scritti di pugno portavano ai destinatari una parte della mia vita e avevano per me un grande valore: mi raccoglievo nel silenzio della cameretta e liberavo il piacere dello scambio. Col tempo la carta ha ceduto il passo a tastiera e monitor del pc… era bello intrattenersi con sé stessi per incontrare gli altri.
La mia è stata
una generazione “lenta”, che viveva di letture, di sport e passeggiate
all’aperto. Le conversazioni private a distanza si svolgevano per via
epistolare o attraverso le cabine telefoniche: buste, francobolli, gettoni e
tessere plastificate…pensare che ora bastano un click e una sfiorata di
monitor.
Ad oggi sembra che nessuno di noi abbia mai abbastanza
tempo per fare ciò che vorrebbe, o anche solo ciò che è necessario fare:
corriamo, corriamo sempre perché “non c’è tempo”. Dobbiamo preservarlo, questo
poco tempo, dobbiamo ottimizzare, fare quante più cose in contemporanea.
Ma che cosa è successo? Dove abbiamo fatto finire il “nostro”
tempo? Non riusciamo più nemmeno a
sederci intorno ad un tavolo per confrontare le esperienze fatte.
Sembra che la conferma della propria esistenza sia demandata sempre di più allo sguardo pubblico: più mi vedono e più esisto.
Un pubblico amplio e abbastanza anonimo, quel “man” a cui la filosofia tedesca dello scorso secolo ha attribuito il senso dell’”Inautenticità”: si dice, si pensa, si fa… Si, ma chi?
Corriamo quindi verso uno stato di anonima confusione, uniformandoci ad un sistema che spinge sempre più all’identificazione collettiva, una identificazione schiacciata verso il basso, verso l’elementare e il banale, dove le mosse e le trovate più stupide e insensate diventano facilmente virali e vengono spinte all'esasperazione.
Fino a diventare modello per molte persone, e non solo tra i giovanissimi. Proprio di recente mi son imbattuta nel fenomeno del "parlare in corsivo", un modo distorsivo di emettere suoni linguistici che ha fatto scalpore in pochissimo tempo.
Di recente ero con un amico al cinema, e lui mi ha detto: "Vedi, il
mondo cambia... e il cinema ce lo restituisce, ce lo fa vedere"…E' proprio
così. Si trattava di un film gettonato, ma era pregno di citazioni di altri
film, imitazioni e battute banali scontatissime, e sentite mille volte nei
film del passato. Dopo un quarto d'ora ci siamo chiesti se non fosse meglio
tornare a casa... Il mondo cambia, ma deve per forza retrocedere?
Un articolo che rientra – o ne esce – nella stessa logica e che esibisce la forza coercitiva e condizionante di un mercato anonimo, che non è maschio né femmina, e che orienta i gusti in funzione meramente economica.
E’ vero che uomini e donne hanno subito sempre gli influssi della moda del momento, ma oggi questa voce si è fatta più suadente e invasiva: ormai gli algoritmi informatici dominano le nostre scelte senza che ce ne rendiamo davvero conto. Nuovi strumenti conseguiti dall'evoluzione delle neuroscienze e dagli effetti prodotti dallo sviluppo tecnologico rendono potente quella pubblicità anonima che Heidegger demonizzava cento anni fa.
Allora non esisteva internet,
le persone non si incontravano in ambienti virtuali e non trascorrevano tanto
tempo sui canali social. Le
mediazioni e le distorsioni accadevano in altro modo, di certo in maniera meno infida
e seduttiva.
Eccolo l'uomo, individuo solo che corre e che consuma, e che crede in questo di essere libero. Viene da chiedersi cosa sia davvero, in fondo, la libertà, e quanta mai l’essere umano possa averne saggiata.
Ogni epoca usa i suoi strumenti e dietro le quinte se la ridono quei soggetti che ne fanno uso: espressione, questa, di intelligenza, sia pure mal orientata.
E’ dunque possibile usarla e alimentarla, e volgerla in direzione diversa. Perché siamo così lenti?
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