Il Mio Blog non vuole essere un monologo, ma un invito all'incontro: pertanto sono graditi i commenti e il succedersi degli scambi che ne conseguono.
Buona lettura!

sabato 31 dicembre 2016

Bambole


Ho sempre sofferto di una personale avversione nei confronti delle bambole.

Quando ero piccola ne ho ricevute in dono da adulti per lo più incapaci di osservare, o solo noncuranti delle emozioni che potevo provare. Ero una bambina, e molti pensano che i bambini siano una sorta di gnomi poco sviluppati, quindi un pò stupidi e incapaci di porsi domande e formulare proprie opinioni su quello che vivono.

io odiavo le bambole, lo sapevano tutti. Ma allora perchè me le regalavano? Ero piccola certo, magari un pò ribelle, ma ritenevo offensivo dover ringraziare pubblicamente qualcuno che, con tanto falso entusiasmo, pavoneggiava se stesso vantando di avermi fatto un super-regalo, pur nella effettiva consapevolezza che quel regalo non era affatto gradito.

Insomma, qual era il senso?

Una conveniente esibizione di finto interesse per la mia piccola persona davanti ad un particolare pubblico? 
Assolvere ad un dovere sociale nel modo più scontato possibile (ai bambini si fanno regali, e alle bambine, in particolare, si regalano bambole)?
Offendermi gettandomi in faccia la cruda realtà, cioè che il mio stato emotivo non era oggetto di alcuna attenzione?
Ho sempre detestato le ipocrisie: quelle di chi mi trovavo davanti, e quelle a cui ero obbligata dalle buone maniere che i miei familiari tenevano tanto a far rispettare.
Mi sentivo poco credibile e fuori luogo: provavo disagio.

Sarebbe corretto dire che sono cresciuta in ambiente maschile: ho trascorso molto tempo con i fratelli di poco più grandi; sono stati i miei soli compagni di gioco fino a quando i genitori hanno ceduto ai colpi incessanti delle mie quotidiane proteste, (non mancavano pianti pietosi ed espressioni disperate), inserendomi finalmente in una scuola, con un anno di anticipo rispetto al tempo previsto, a contatto con altri bambini, fuori da quella casa che mi opprimeva.

Con loro, i fratelli, era una lotta continua; procedevamo a suon di graffi, di morsi e spintoni: riuscivamo a farci veramente del male! Ho anche perso un dente a causa di un pugno. Vabbè che già dondolava... 

In mancanza di altri compagni io giocavo con loro: avevamo biglie di vetro colorate con cui colpivamo i soldatini in nostra dotazione, ne avevamo tantissimi. I più belli erano i samurai: un esercito numeroso, tutto color argento, in vesti tradizionali, riccamente rifinite.
 Li schieravamo contro i cowboys di plastica e poi tiravamo le biglie per combattere.
C'erano anche i piccoli indiani dalle espressioni cattive, con le loro accette di guerra, le piume in testa e la pipa della pace.

  Ma i pezzi più amati erano le macchinine da scontro. Alcune venivano caricate trascinandole indietro per qualche secondo, poi le scagliavamo in avanti, addosso al nemico. C'erano pure le macchinette da corsa, che volavano sulla pista nera che assemblavamo incastrandone i pezzi, modificandone spesso il percorso: le lanciavamo così veloci che uscivano sempre di strada nelle curve.

A quei tempi, e ancora per molto in seguito, io mi divertivo a vedere i film western e sognavo di diventare un cow boy, con il cinturone allacciato ai calzoni, doppie pistole, stivali con gli speroni dorati, ed il giacchetto con le frange. 
Quindi perché mi regalavano le bambole??

Il massimo dell'offesa arrivava con l'omaggio degli accessori: potevi cambiare addirittura i vestiti!
Io non sapevo proprio che farne, con quegli oggetti inanimati, li trovavo inutili. Così finiva che li smontavo, staccandone i pezzi che risultavano aggiunti al corpo centrale, come le braccia, la testa e le gambe. Le rompevo tutte dopo pochissimo tempo, ma ne appariva sempre qualcuna in giro a fare il rimpiazzo. 

Quella che ricordo con disagio maggiore era la bambola vestita da sposa: fu un regalo di uno zio - uno zio che tra l'altro detestavo per la rigidità e l'arroganza dei modi. 
La mia famiglia festeggiava l'evento religioso della mia prima comunione - proprio una scelta consapevole e responsabile, come vuole il rituale, eh!! - , e lui portò una bambola molto grossa, coperta da una veste nuziale di raso bianco, lucido come il ghiaccio. Aveva la postura di chi sta seduto a gambe larghe, con la schiena eretta, gli occhi enormi e spalancati, ed era rigidissima. Quella notte ero terrorizzata perché la luce fioca che dal corridoio arrivava nella mia stanza faceva risaltare il bianco del vestito, in netto contrasto con l'oscurità  della notte, e la faceva sembrare un fantasma, uno spirito cattivo. 

Ricordo ancora i brividi e il senso di gelo sotto il lenzuolo.
Venne poi il momento delle bambole di ceramica: mi dicevano che erano preziose, che si trattava di qualcosa che dovevo custodire con cura, un regalo importante di cui dover essere davvero grata. 
Ohi ohi, l'espressione di quei volti era ancora più terrificante di quelle di plastica: sembravano davvero più gelide e morte delle compari a cui succedevano!


Se fai un regalo, dovresti almeno desiderare che venga gradito. Ma a volte i regali, soprattutto quelli destinati ai più piccoli, son deputati a compiacere le famiglie ospitanti, e ad ostentare disponibilità secondo convenienza.

E quegli oggetti, plasmati a somiglianza di esseri umani, erano freddi, rigidi, stupidi: io li detestavo.

Alcuni avevano la forma del neonato: per allenarmi a diventare in futuro una mamma (???!!).
Ve ne erano di gomma morbida, e di plastica dura, dal cranio liscio o con capelli ispidi, realizzati in qualche materiale sintetico.
Un giorno me ne fu regalata una che parlava: aveva un piccolo sportello nella parte posteriore, di poco sotto il collo, in cui era posizionabile una batteria. Così, una volta inserita, bastava premere il largo tasto sul davanti, nella zona corrispondente, e la bambola emetteva dei suoni, una specie di  saluto gioioso - degno del miglior film dell'orrore allora in commercio.

Ricordo che aveva i capelli scuri, le arrivavano alle spalle, e mia madre diceva che mi somigliava. Prese a chiamarmi "la sua bambola parlante" senza rendersi conto di quali tremendi sentimenti riuscisse a suscitare nel mio intimo: un misto tra l'impotenza e l'oppressione.

Ce n'era poi una che aveva gli occhi azzurri, fatti di una plastica lucida, che li rendeva terrorizzanti nella totale inespressività che le era propria. Questa bambola era magica, dicevano: bastava metterla in orizzontale che gli occhi si chiudevano. 
Era proprio così: assunta la posizione orizzontale, le piccole serrande, sagomate a rappresentare le palpebre, scendevano giù a coprire quel colore ceruleo. E la bambola "dormiva". Bastava rimetterla in piedi per tornare a vederne il colore degli occhi.
Ovviamente, la lasciavo dormire tranquilla...

Questa bambola, quando arrivò, me lo ricordo bene: ero nella camera che mi era stata assegnata durante le vacanze estive, nella grande casa che il nonno aveva fatto costruire per vedere tutta la famiglia riunita almeno in estate. Ero in piedi, tra il letto e lo specchio, e guardavo il cielo luminoso che entrava dalla finestra aperta. Volevo buttare la bambola di sotto, ma sapevo che la nonna, che me l'aveva portata, ci sarebbe rimasta male. Così la nascosi nell'armadio grigio, in fondo in fondo, dietro ai vestiti.

Credo che ci fu una sola bambola che trovò la mia approvazione: era quella gitana. Si trovava nella casa della nonna materna, tenuta come soprammobile su una colonnina di marmo, nell'ingresso, vicino alla porta d'entrata. 

Mi piaceva osservarla, ne ero affascinata: si trattava di una figuretta snella, con indosso un'abito rosso lungo, tutto plissettato fino alla lunga coda che scendeva dietro le caviglie, a strascico. Rappresentava una ballerina di flamenco, dalle braccia alzate, con le nacchere scure tra le dita, in quella tipica postura che fa avvicinare i polsi, mantenendo distanti tra loro i gomiti con una certa grazia. Sulle spalle aveva un scialle nero ricamato, che terminava di tante piccole frange che si muovevano al più lieve tocco.
Ricordo gli occhi allungati, segnati dal tratto nero che li rendeva davvero drammatici, il ginocchio in avanti, che accendeva nella mia mente l'idea del movimento.

 Quella bambola mi sembrava viva: la vedevo nello spazio, sinuosa, che danzava. Era impegnata in qualcosa che la rendeva bella. Chissà, forse la mia passione per la danza è iniziata in quel corridoio, davanti a quell'oggetto.
 Avrò avuto cinque anni.

In seguito, a distanza di tempo, ho scoperto il piacere che può dare la danza impegnandomi in un personale studio attento e appassionato: provavo i passi in continuazione e ovunque. Mi piaceva cadenzare il movimento nello spazio, scivolare in ritmi diversi, sentire l'aria che mi si muoveva attorno. 

Ho sperimentato un bel po': dalla ginnastica ritmica alla danza classica a quella moderna, il jazz, il funky, anche la danza del ventre. 
Tanti modi diversi di sentire il corpo nello spazio, di osservarlo disegnare figure ora lente ora forti, linee spezzate, arrabbiate, alternate a movimenti esatti, sempre più personali e sempre più miei. 

Lentamente imparavo a cogliere la bellezza del movimento, e a sentire il mio corpo nel mondo. 

Comunque le bambole hanno via via lasciato il passo ad animaletti di peluche un po' più espressivi, morbidi e gradevoli, fino a sparire del tutto. 
In quel periodo dicevo a tutti che da grande avrei fatto la veterinaria, così sarei potuta restare sempre in compagnia di animali felici, curati da me.
 La tecnologia faceva progressi, regalando un po' di espressione vitale ai giocattoli.

 In occasione di un mio compleanno, inaspettatamente, un giorno accadde qualcosa: il suono del campanello alla porta di casa, la pesante porta di noce aperta da me, e la signora Delia, inquilina del piano di sotto che, sorridendo, mi porgeva un piccolo mazzo di fiori: un gesto delicato, semplice, personale.

 Mi ero finalmente liberata di quegli stupidi oggetti.
Così pensavo.
Ma non era così.

Crescevo e mi confrontavo con altri coetanei. Ero avvezza ai giochi maschili, ai modi maschili, ai vestiti maschili. Io non frignavo come le altre ragazzine per sciocchi dispetti, non avevo segreti da sussurrare all'orecchio delle amichette, non mettevo il colore sulle unghie, e non sopportavo quei giornaletti che ammiccavano a chissà quali notizie per sole ragazze...

Loro carine, ammirate, elogiate. Loro inutili e sciocche, poco espressive come  le bambole che non mi piacevano affatto. Stavano lì, come oggetti passivi tra altri giocattoli sparsi: io mi annoiavo in quell'anonimo mondo.

Ma di bambole ne ho incontrate ancora parecchie, poi dopo, di sesso femminile come anche maschile.
A volte ancora oggi qualcuno mi invita a giocarci, me le porta davanti, ed io mi domando se è solo una svista o se si tratta invece di un dispetto voluto. Magari mi stanno solo mettendo alla prova, per vedere se so rispettare il mio tempo rivolgendomi altrove.

Le osservo curiosa: sono schermi su cui proiettare tante strane avventure: strumenti ottimali per costruire vicende ideali  che sostituiscano quelle reali.

Sono involucri vuoti, colmabili in varie maniere: siano esse messaggi, valori ed idee. Togliere e mettere: cambiare senza dolore e in modo veloce ciò che altrimenti non si potrebbe toccare. Un ottimo modo per assoldate ubbidienti postini.
Che tanto, poi, non lo sanno nemmeno.

Un ottimo trucco che dovrei ogni tanto imparare ad usare per mia utilità. 

Una scelta studiata, insomma,
   e non certo per esistenza mancata.


Perché questo tema?
Tutto è  partito da un sogno che la giovane amica ha fatto di notte. Mi ha raccontato perplessa di aver visto due donne, belle e sane davvero vicine per forma e complicità. E siccome una diceva con tono convinto di voler fare l'attrice, l'altra la metteva supina, rivelando a soggetto sognante una forma di bambola vuota all'interno.

E così prendeva a dividerla in parti, attraverso un attrezzo che non le toglieva la vita.

E lei, l'autrice del sogno, ha capito il messaggio: a volte, per vivere, diviene opportuno recitare le parti...



















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