Timothy Morton ci dice che questo mondo non è più Il mondo, e che prenderne coscienza provoca il trauma salvifico, l’unico in grado di farci cambiare modo, lo choc che ci risveglia. Il mondo non è più il contenitore conoscibile, ma quello che indica come lo “estraneo strano”, ciò che ci attrae e ci respinge, che si impone dall’interno per costitutiva coappartenenza, e che ci sfugge, pur dominandoci.
L’ossessione di questa nostra realtà ci cambia e ci
obbliga ad una riflessione rivoluzionaria, che stravolge la nostra visione del
passato e del presente, costringendoci ad un agire diverso, lungimirante
seppure parzialmente cieco, ad un salto verso l’ignoto.
Morton descrive questo stato come qualcosa che sa di pazzia: una stabilità che ci impedisce di stazionare, perché tutto rimane inafferrabile, o lo è solo parzialmente. Un pensiero attraente e spaventoso, che mi pare ben descrivere lo stato attuale in cui tutto è crisi, tutto è disciolto e dilaga ovunque, come un magma fluido che nell’espandersi incorpora ciò che trova e lo porta con sé.
E questa pazzia dovrebbe aiutarci a veder oltre, a cambiare “casa”, a muover passi altri. Sono personalmente convinta che ciò sia vero, l’ho sempre creduto, ma non tutti gli uomini sanno resistere all’orrido: qualcuno, un tempo non lontano, con fare grave, mi ha detto e ripetuto di non riuscirci, che non sapeva adattarsi, che in questo mondo non riusciva a ritrovarsi e che si sentiva perduto.
Mesi dopo questa persona ha deciso di andarsene, e lo ha fatto nella solitudine e nel dolore. Una persona che, pure, aveva molte risorse, più di quante ne abbia colto in tantissime altre. La storia si ripete, ed altre persone di mia conoscenza hanno spento la luce, nel solo modo che le leggi violente di questo paese concedono a tutti: nel silenzio, nella solitudine, e nella disperazione. Il pensiero vola oltre la mia bolla privata: siamo così tanti. Un’anima bella mi scrive che “il nostro mondo è ridisegnare il mondo”; anche su questo mi sono sempre impegnata.
Nel piccolo,
tra le persone, con i bambini, in natura…ovunque. Ma siamo formiche, troppo
spesso distanti, isolati da retaggi culturali ed interessi altri che di humanitas non hanno nemmeno l’odore più
tenue.
Lo sconforto per lotte vanificate e per scenari vissuti che potevano
essere evitati, in uno spazio che ha i limiti del fenomeno fisico e del tempo
della memoria.
Un’ amica africana racconta della sua terra, della convinzione condivisa dell’importanza del crescere i figli, tanti figli: chiunque continuerà a vivere finché altri lo ricorderanno. La famiglia diviene una prolunga, diviene un ponte.
Espando questo concetto a tutte le impronte lasciate
durante il cammino terreno, alle persone toccate, anche solo per poco, e mi
ripeto come un mantra ciò in cui credo fermamente: chi dà riceve e chi riceve
ha il dovere di restituire dando a sua volta, in un circuito virtuoso che
concede il recupero franco di una familiarità sostanziale con noi stessi e con
chi calpesta questo mondo.
Rimane un gran senso di dispiacere, di disagio, di mancanza.
Rimane il senso di una violenza incomprensibile. E subdolamente, a ondate, la
stanchezza prevale.
Per cosa viviamo? Forse per stringerci insieme ed unirci in
un sorriso comune, forse per aiutare chi ne ha bisogno maggiore, forse per
godere della bellezza che ci si offre dinanzi senza essere vista, una bellezza
che non può escludere l’uomo e che sembra però sopravvivere solo senza di esso:
uno iato che dobbiamo curare, un mondo che sta a noi disegnare di nuovo.
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