Una domenica mattina, una delle mie tante escursioni tra
campi e boschi. Viaggio con una cara amica che da anni, ormai, accetta di seguire
col sorriso le mie scorribande. Abbiamo scarpinato nel fango, raccolto ortica
selvatica, sonnecchiato tra i cardi e sorriso davanti a un vitello che succhiava
il latte dal corpo materno.
Una splendida giornata di sole, satura dei profumi
dolciastri di questa strana primavera che è lenta a svelarsi. Finalmente
distese, anche se stanche, ci dirigiamo verso casa. Poi, però, lo sguardo cade
su un campo in cui una decina di asini pascolano sereni. Hanno il pelo
arruffato, sono di colori diversi, con le grandi chiazze bianche intorno agli
occhi e le caratteristiche lunghe orecchie.
Non riuscendo a resistere, ci fermiamo, e li vediamo
arrivare in un attimo: ci raggiungono fino al recinto, allungando il muso verso
le nostre mani. La mia amica raccoglie erba fresca dal suolo e la offre ridendo
davanti allo spettacolo allegro che ci si para dinanzi: gli uni con gli altri, i
musi vicini, si tolgono i fili di bocca. E così il gioco prosegue, con manciate
di erba tenera e veloci bocche pelose che masticano.
Mi guardo intorno, chiedendomi perché vengono allevati degli
asini. Sono belli, certo, ma oggi si fa tutto per profitto… e vedo un cartello
di legno, con su scritto a caratteri storti “si vendono uova fresche ed altro”.
Uno sguardo di intesa e ci diamo da fare: andiamo a vedere.
Raggiungiamo un ometto, avanti negli anni, un po’ curvo, che
ci sorride invitandoci a entrare. E’ lui il capoclan: vive lì con la famiglia,
con le galline, gli asini e alcune capre.
Ci dice che, in effetti, dovrebbe correggere il cartello: lui vende le
uova, quanto all’ “ed altro”, non sa bene cos’è. Ci racconta che le capre le
gestisce il genero, producendo pochi formaggi (che poi avremo il piacere di
assaggiare); quanto agli asini, non sa nemmeno lui perché il figlio abbia
deciso di allevarli…
Domenico, è questo il suo nome, ci accoglie in casa per
presentarci Teresa, la moglie: una donna robusta dagli occhi buoni, che ci
prepara un caffè e fa spazio sul tavolo. Sediamo in una piccola cucina dall’aspetto
vissuto, i piatti svuotati ancora sul tavolo dopo un pranzo in famiglia appena
concluso.
Io e la mia amica sediamo, a nostro agio, e parliamo a lungo
con loro: respiriamo un’atmosfera benevola che ci fa stare bene; l’atmosfera è
rilassata e gioviale. Domenico ci racconta delle sue galline, di quella
piccola, nera e ribelle, che smaniosa di libertà, aveva covato all’aperto, sotto
la protezione di un grosso cavolo. Tanta l’ostinazione che le uova si erano poi
schiuse, lasciando uscire dei sani pulcini. Ci parla della sua infanzia, al
paese in Abbruzzo, quando la carne non si mangiava quasi mai, perché gli
animali costavano, e costava fatica nutrirli. I polli di oggi, però… Ci fa il
nome di allevatori famosi alle cronache, del modo in cui allevano le bestie che
poi la gente acquista, per pochi euro, al supermercato.
Parliamo dei nipoti, della scuola, del fatto che molti
ragazzi crescono senza avere la fortuna di poter toccare la terra, senza conoscere
il verso di alcuni animali. Loro hanno tre figli, e ognuno ha altrettanti
bambini - qualcuno di più - e vivono lì, tutti vicini, condividendo un pezzo di
terra che accoglie animali, un bell’orto e una serra.
Il nostro ospite tiene banco, un cerimoniere di corte, e
restiamo in silenzio a seguirne i volteggi mentali; abbiamo gli occhi sgranati
e le orecchie spalancate intanto che il tempo scorre veloce verso la sera. Lui si
è rovinato una spalla lavorando la terra, ma non si ferma, nonostante l’età: è
lì, tutti i giorni sul campo. Dopo un po’ infatti si congeda con una frase
cortese e torna al lavoro. Ci dice la moglie che lui si fermerà solo da morto.
Sorride, Teresa, con un’espressione di semi-rimprovero e approvazione: si vede
da come scherzano che l’intesa tra loro è sana.
Compro le uova e mi invitano
a vedere la serra: dietro la porticina sbilenca, custodita da un lucchetto
rugginoso, vedo file lunghe di insalate giganti, così belle e sode da sembrare gioielli.
Rimango ammaliata da tanta semplicità, umanità e benevolenza.
Teresa mi consegna un cespo di canasta che ha appena colto:
un regalo per me, secondo i rituali di una ospitalità antica e dimenticata da
molti. Un benvenuto che segna il primo di incontri futuri. L’insalata è
croccante e piena di terra, il suo diametro supera quello del mio busto.
Lavorare la terra è faticoso, e questa coppia, avanti negli anni, fatica.
E accolgono me, con
calore, con fiducia e con doni preziosi.
Ci diamo un appuntamento a breve perché ho intenzione di
acquistare i formaggi, ed il loro genero non è in casa. E così io ritorno, e
scopro che altri parenti gestiscono api e, a breve, produrranno miele di acacia
e castagno.
Altra lunga
conversazione, altre risate, ancora festa. I piccoli caci hanno il sapore dei
miei ospiti: semplici, genuini e sinceri. Tra una visita e un’altra si
susseguono bicchieri di vino, racconti, riflessioni e sorrisi. Ogni volta, in
auto, percorro una strada diversa per raggiungerli, ma l’accoglienza è sempre
la stessa.
Ieri, licenziandomi,
ho ricevuto un abbraccio materno. Ci vedremo domani, probabilmente: le ho
promesso un rimedio per le ginocchia dolenti.
Teresa mi ha raccontato di sé, di come è arrivata in Italia
da Asmara ai tempi in cui dall’Eritrea si partiva per tornare dopo alcuni anni
di lavoro. “Io volevo aiutare i miei fratelli e così sono partita da sola, non
conoscevo nessuno, ma sono stata fortunata: ho trovato tante brave persone” -
Teresa ha cresciuto i figli di altri, prima di crescere i suoi. Lo ha fatto per
soldi e lo ha fatto per necessità. Ha cresciuto anche i figli dei fratelli che
sono morti durante la guerra, e li ha aiutati a venire via da quel paese
ferito. Ora i nipoti sono tutti sistemati: la scuola, il lavoro, e i loro
figli. A questa donna brillano gli occhi mentre sorride al nipotino più piccolo
che si avvicina timidamente stringendo la mano alla mamma, che entra in cucina
per un saluto. Entrambi sono scuri di pelle, capelli ricci e zigomi alti. La voce
rivela la cadenza romana.
Il suono corposo conquista lo spazio nel raccontare della
sorella più giovane, figlia di un padre diverso, che è rimasta ad Asmara, e i
nipoti che sono migrati in Canada, e i suoi figli, che le vivono accanto. La casa
è piccina, eppure mi sembra enorme, piena di vita e di urla, di capricci e di
gambette veloci...
Le dico, commossa, che ha vissuta una vita importante, suggerendo
quello che sa: che lei ha avuto tanti, tantissimi figli. Sorride e dice di sì, che è felice. La sua
vita, ora sta qui.
La voce rimane serena anche quando descrive gli orrori, la
fatica e le incertezze: ha dovuto guadagnare molti soldi per consentire ai
ragazzi di approdare in Italia: storie di barconi, di capò, di un sistema
malato. Mi ha descritto i campi di
accoglienza nella loro vera natura: prigioni violente che snaturano l’uomo, a
cui tolgono quel poco che c’è e la dignità di esistenza. Dove si ruba su quanto
già è stato rubato.
L’ha superato, tutto questo, Teresa, e i suoi ragazzi sono divenuti
uomini e padri. Dopo aver faticosamente comprato – sue le parole – la libertà
dei suoi cari, questi si sono dati da fare, e lavorando onestamente hanno
ricostruito la dignità sequestrata.
Questa famiglia, con i suoi modi, con la sua storia, ha toccato
qualcosa dentro di me. E ora sono qui, a scrivere di loro su questa tastiera,
perché le parole cupe mi girano ancora e ancora nel cuore: “nessuno lo sa
perché nessuno lo dice”.