Il Mio Blog non vuole essere un monologo, ma un invito all'incontro: pertanto sono graditi i commenti e il succedersi degli scambi che ne conseguono.
Buona lettura!

giovedì 9 giugno 2016

TI ASCOLTO




La comunicazione é un argomento che mi affascina.  "Non è  possibile non comunicare", sosteneva Watslawich, e con lui molti altri.  
Ogni mossa, ogni gesto, suono, espressione, il modo in cui vestiamo, il nostro stesso tacere... Tutto parla e dice agli altri di noi, del nostro stato d'animo, di ciò che stiamo provando o che vogliamo far mostra di provare.

La vita e l'inganno. Il non oscurabile, ma anche la strategia prodotta dalla riflessione.


Proprio in questi giorni mi è capitato di leggere qualcosa sulla comunicazione ambigua, sulla forza del non detto e del comunicare in modo oscuro. Quel sistema espressivo un pò misterioso che sa catturare con le sue seduzioni, che coinvolge costringendoci a colmare in prima persona il vuoto d'informazione. 
 Quel pungolo che fa riflettere su un telo vuoto le immagini che abbiamo dentro. E così guardo ciò che ho davanti e vedo me stesso: rassicurante, familiare...Va bene, mi piace!

P. Grice è stato uno dei primi pensatori a dirottare, nel 900, le riflessioni sul linguaggio nella direzione della riflessione sul comunicare, segnando finalmente il passaggio dall'analisi logico-linguistica alla Pragmatica, all'azione comune (nel senso in cui lo è la comunic-azione), all'acquisita consapevolezza del fatto che l'espressione individuale non può essere solo un insieme di regole e strutture, ma un agire legato ad emozioni, aspettative ed intenzioni.

Per primo delineò alcune "massime della comunicazione", capaci di far emergere l'assunto secondo cui ogni atto comunicativo agisce sempre in un contesto di cooperazione,  all'interno del quale i partecipanti si pongono in assetto di disponibilità all'ascolto. 
E chi parla, a sua volta, è consapevole di star parlando ad altre persone che sono, appunto, disposte all'ascolto.

Grice sosteneva quindi che nella comunicazione felice - cioè coerente al suo scopo - devono essere rispettate primariamente le leggi della qualità (i contenuti espressi debbono essere ritenuti veri da chi li espone, e verificati); della quantità (è importante non privare nè sommergere di informazioni il nostro ascoltatore, altrimenti lo mandiamo in confusione e ce lo perdiamo); della relazione (dire cose pertinenti) e del modo (esprimersi in modo chiaro, non ambiguo). 

Trasgredire uno o più dei suddetti principi equivale a generare una comunicazione  pesante e poco agevole.
In effetti, torna: il rispetto di queste poche regole determina l'attuazione di una comunicazione efficiente.

  Ed è  proprio questo che presupponiamo, in buona fede, che accade negli scambi. Noi agiamo in un ambiente che consideriamo "collaborativo": ci aspettiamo che l'altro sia disposto ad ascoltare, e che sia rispettoso delle suddette regole.

Ma presupporre ciò che desideriamo o che riteniamo corretto non significa che accada realmente.

Supporre che se l'amico mi invita a pranzo di domenica sara' davvero ospitale non ne e' anche garanzia: potrei vedermi offrire un pasto insignificante, potrei non trovare del buon vino, potrebbe non deliziarmi il palato una buona torta a fine pasto... O magari il mio ospite potrebbe comportarsi in modo scorbutico e irrispettoso. 

Certo, avremmo un chiaro esempio di infrazione di regole... Ma si tratta solo di "massime della felicità": regole utili, molto auspicabili, verso le quali tendere, ma che non è possibile imporre, in quanto solo nella loro espressione volontaria ne emerge il valore. 

D'altronde, che senso avrebbe costringere qualcuno ad essere realmente nostro amico?

Per dirla tutta, queste regole di comunicazione vengono infrante molto spesso, a volte di continuo. 

E questo accade perché la comunicazione vera non si dà in superficie.

Oggi una persona è venuta a curiosare nella stanza in cui svolgo normalmente il mio lavoro. Mi esponeva fatti, raccontava aneddoti, e intanto mi osservava. Gli occhi fissi su di me, con espressione inquisitoria, rivelavano la vera ragione della sua visita.  Non era quanto affermava esplicitamente e in modo diffuso, ma la domanda che non osava fare. E che ho appositamente lasciato senza risposta. 
Almeno le regole della chiarezza: se vuoi sapere, chiedi !!

Quindi: interagisco con altri dando per certo, in sottofondo, che gli attori rispetteranno certi criteri. Se poi, però, questo non accade, allora mi sento tradita ed offesa.  E l'altro assume la veste di nemico nel mio prospetto mentale.

La cieca fiducia in una presupposizione, sia pure giustificabile e comprensibile, se tradotta in termini di legge universale, ci impedisce di osservare e di ascoltate l'altro.  E cosa realmente ci sta dicendo.
Da lì parte il balletto delle emozioni, in rimbalzi avvolgenti da una parte all'altra del tavolo da ping pong...







3 commenti:

  1. Le leggi di Pierce valgono nella comunicazione interpersonale. Esiste anche la comunicazione intrapersonale tra le varie istanze biologiche e psicologiche individuali. Una di queste è il sintomo che si manifesta come sofferenza. È una comunicazione biologica che deve essere capita ma non soppressa coi farmaci. Il sintomo è verificabile, quantitativamente misurabile, è pertinente in relazione al messaggio che porta, non è ambiguo psichicamente. Può essere ambiguo nella diagnosi medica che tende a sopprimerlo. Nessuno ha mai scritto le leggi di come comunichiamo dentro di noi, pensando all'uomo come ente unitario. No, l'uomo internamente è diviso, esattamente come un sistema operativo di un PC. L'unità é data dalla integrità delle funzioni e dalla integrità della rete di interscambio comunicazionale. La verifica di qualità del sistema comunicativo e computazionale umano la si fa attraverso i sogni.

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  2. Anche nella comunicazione intrapersonale, quella tra la persona e i suoi sogni, le immagini che dona a sé stesso, é fondamentale il fulcro cooperativo della volontà di ascoltare.
    senza quest'impegno, le immagini svaniscono in condensati fenomenici non sempre benefici...

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    1. Il problema si manifesta quando il soggetto (il sognatore) comprende il significato del messaggio onirico che quasi mai coincide con la valutazione che ha di sé stesso. "Il sogno nega ciò che la ragione sostiene". Quando il sognatore ha l'evidenza di questa dicotomia, il più delle volte, rifiuta in toto la sua verità per risprofondare nell'incoscio schizofrenica della sua non-esistenza. In psicopatologia questo si chiama "fuga dalla realtà".
      Dopo seguiranno malattie, dolori, sofferenze, tanto più gravi quanto più forte è stato il rifiuto di vedere sé stessi.

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