Il Mio Blog non vuole essere un monologo, ma un invito all'incontro: pertanto sono graditi i commenti e il succedersi degli scambi che ne conseguono.
Buona lettura!

venerdì 17 ottobre 2025

Asilo

 

 

C’è stato un tempo in cui sbarcavo il lunario impegnandomi in attività disparate. Ero una entusiasta studentessa universitaria che cercava di unire lavori intellettuali ad attività pratiche: avevo paura di finire come quei soggetti capaci solo di sfogliare libri e tenere in mano la penna. Dinamiche di un tempo perduto, ovviamente: internet non era ancora nelle case di tutti e i computer non erano proprio alla portata di molti…

Così, dato che la sottoscritta era l’ultima persona entrata nel giro, oltre che la più giovane, una società assicurativa mi affidò rappresentanza e vendita di contratti presso gli asili comunali della mia città - quelli più scomodi da raggiungere, ovviamente, situati nei confini del regno.

 Mi si aprì uno scenario sconcertante.

Già da allora mi occupavo di formazione, studiavo per entrare nelle Risorse Umane, mi occupavo dell’educazione di bambini e ragazzi, e scoprii, in quell’occasione, che nelle strutture pubbliche i nostri piccoli erano affidati a persone dalla scarsa cultura e dalla dubbia educazione. I bambini, individui delicati e fragili, un enorme potenziale da stimolare e curare...in mano a chi cercava solo una retribuzione a fine mese, senza ben capire realmente il contesto in cui operava.

Sono trascorsi anni da allora, e io sono ancora attiva in quell’ambito che reputo fondamentale per la realizzazione e il mantenimento di una società civile. E con cuore dolente mi tocca affermare che ad oggi questo settore continua a vivere nell’oscurità della ignoranza e della finta buona forma.

Nel tempo si sono susseguiti decreti legislativi contraddittori, che hanno portato a confondere l’assistenza sanitaria con la cultura pedagogica – gli operatori definiti tutti indistintamente EDUCATORI -, e l’infanzia è diventata un unico calderone che identificava neonati e bambini di età scolare, come se essere piccoli fosse un unico elemento distintivo rispetto al mondo adulto.

Sono poi emersi numerosi scandali legati a fatti di cronaca, a seguito di denunce di genitori ostinati, e alla messa in funzione di telecamere nascoste nelle strutture dedicate: molti cosiddetti educatori, in pieno esaurimento fisico e mentale, esercitavano il loro mestiere con i bambini a suon di botte, strattonate, urla e male parole.

Si è finalmente dovuta affrontare la questione della loro formazione professionale.  

Ed è diventato un po' più chiaro che la diffusa affermazione secondo cui “tanto sono piccoli, che altro vuoi fare se non intrattenerli e cambiare il pannolino?” era un po' troppo semplificativa…

 Decisori politici hanno quindi decretato ancora, disponendo la distinzione ufficiale tra prima (fascia di età 0-3 anni) e seconda infanzia (4-6 anni), tornando a separare il settore socio-sanitario - di orientamento clinico - da quello psicopedagogico a carattere educativo.

Si è infine stabilito che per operare con la prima infanzia fosse obbligatorio aver conseguito un titolo specifico del corso di laurea in scienze dell’educazione, con curriculum Prima infanzia. Gli altri percorsi aprono le porte a lavorare nelle comunità anche con adulti, con anziani, come animatori, nelle ludoteche e con extracomunitari. Le materie di studio spaziano dalla sociologia, alla psicologia, alla pedagogia e anche un po' all’area giuridica.

Per arrivare a questo abbiamo dovuto attendere l’anno 2020 (ieri l’altro, in poche parole).

Con un personale sversamento di bile faccio notare che il corso di studi universitario in scienze dell’educazione è nato solo negli anni 2000 e che, in precedenza, gli educatori hanno potuto operare con i bambini (sui bambini, mi correggo) avendo conseguito anche solo un titolo regionale della durata di un anno di studi basato sull’apprendimento di materie umanistiche.

Il percorso dedicato alla prima infanzia, però, poco si discosta da quello tradizionale, puntando sullo studio di alcuni moduli formativi dedicati alla fascia di età 0-3 che, a contarli, richiedono al massimo un anno di studi. Sono stati però inseriti laboratori obbligatori in presenza che insegnano ad operare in gruppo, ad affinare capacità di ascolto e di coinvolgimento, oltre che strumenti di mediazione e stimoli alla creatività dell’operatore oltre che del bambino. E qui, finalmente, possiamo tirare un respiro di sollievo, se non fosse che in alcuni atenei queste ore di attività vengono evitate aggirando facilmente le regole.

In molte università, purtroppo, il carattere commerciale finisce con il prevalere sulla missione formativa, e si cerca di venire incontro alle esigenze di chi dichiara di avere poco tempo disponibile da dedicare agli studi: viviamo in una società di clienti, purtroppo, in cui vige la legge del mercato.

Assistiamo così ad un curioso fenomeno di capovolgimento del senso comune: se un tempo si studiava, anche a costo di enormi sacrifici, per acquisire le competenze necessarie ad operare, oggi si cerca di conseguire titoli accademici attraverso l’adozione di scorciatoie e agevolazioni, perché il tempo da dedicare non può più essere tanto. Ormai l’obiettivo è divenuto il conseguimento del titolo, a scapito del percorso effettivo di formazione.

Nasce dunque, nella mente di genitori preoccupati e seriamente attenti allo sviluppo della propria prole, la ricerca di soluzioni alternative… Dove andare, come fare?

Negli ultimi anni si è parlato molto dei cosiddetti “asili nel bosco”, strutture educative che operano in maniera differente dal metodo classico cui siamo abituati: bimbi che trascorrono ore in ambienti chiusi, senza possibilità di correre e giocare a contatto con elementi naturali, spesso intrattenuti con l’ausilio di strumenti video non sempre proprio educativi…  E si, la televisione può essere un buono strumento formativo, come la storia ha dimostrato, ma non ne esaurisce le modalità.

 Così, sulla scia di quanto già accade da anni nell’area del nord Europa, anche il nostro paese ha visto fiorire qualche “asilo nel bosco”, scuole che rispettano nel bambino il suo essere naturale, individuo che necessita del contatto con la natura per il proprio benessere e per uno sviluppo rispettoso aperto alla comprensione di sé e dell’altro.

Ma il nostro paese si sa, riesce a far cadere ogni buon proposito con la complessità burocratica che lo caratterizza, e queste tipologie di scuole hanno dovuto far i conti con tante difficoltà, fino a chiudere o a mutare i propri obiettivi di fondo, trasformandosi infine in scuole di élite per sole persone dal reddito alto (sempre perché istruzione e formazione siano un diritto di tutti!).

Ora, io conosco due persone a me molto care, novelli genitori, altrettanto attenti a certi temi, che sono onestamente preoccupati per il futuro delle loro figliolette.  In questi primissimi anni si arrovellavano nella ricerca di una soluzione che potesse ritenersi dignitosa, fino a quando hanno deciso, e mi hanno inviato il programma dell’asilo gratuito da loro organizzato nelle aree aperte del paese in cui vivono.  Si tratta di un luogo interessante e per certi versi faticoso, un paese arroccato su una montagna, fatto di pietre e persone. Al suo interno non circolano macchine né trabiccoli a motore: si cammina e ci si inerpica su scalini fatti di pietre, a volte piuttosto erti, a volte scivolosi.

E così ha avuto inizio un’avventura che sembrava aprire molti quesiti, ma che si è rivelata una grande opportunità per tutti, sia grandi che piccini.

Il paese presenta aree giochi e giardinetti curati dagli abitanti, dove i bimbi si radunano la mattina con i volontari che, giocando, li istruiscono, li correggono, li aiutano a socializzare e a capire cosa significa vivere: stare con altri, a volte litigarci, imparare ad affrontare conflitti e capire il valore dell’amicizia.

Ci sono stata anche io, in questa novella scuola, e ho vissuto un’esperienza bella: finalmente ho sentito cosa significa vivere la comunità e il tanto millantato valore della famosa inclusione. Bimbi piccoli che imparano ad apprezzare gli altri, a conoscerli, a fidarsi, che si contrappongono, si imitano e si aiutano. Che a volte si escludono e poi si cercano, che ascoltano gli adulti coinvolti in attività divertenti che loro stessi, con la propria fantasia, contribuiscono a orientare. Non ci sono mura scolastiche a contenerli: sono benedetti dal sole e carezzati dal vento, si scaldano correndo tra i vicoli, correttamente protetti da indumenti idonei, ovviamente. La pioggia non fa paura, perché dona l’occasione ambita di poter schiacciare l’acqua delle pozzanghere con qualcun altro. Li ho visti suonare sulle ringhiere dei giardinetti con rametti secchi presi in terra, percuotere pezzi di legno tra loro e ballare al suono delle mani ritmicamente battute su superfici casuali, giocare con l’acqua delle fontanelle e con le foglie, mangiare tra una risata e l’altra le giuggiole generosamente offerte dall’alberello che sta in piazza, e rincorrersi per scaldarsi in una giornata fredda, inventando storie di lupi cattivi e pecorelle smarrite (ma furbette!).

Ho condiviso le risate e placato le lacrime, ammirando l’attenzione verso chi stava accanto, e godendo della delicatezza esercitata dagli stessi bimbi nei confronti di quelli più piccoli. Beh, qualche spintone non è mancato, ovviamente.

Alla giornata dedicata alla musica è seguita quella orientata alla lingua, arricchita dalla presenza di bambini provenienti da famiglie di nazionalità differenti.  La giornata rivolta alle foglie ha prodotto quadretti dai colori vivaci, composizioni allegre e gentili fatte solo di natura e creatività.

E così ogni giorno una nuova lezione, all’aperto, vivendo, gli uni con gli altri.

Mi ripeto che è così che si cresce, adulti e i bambini: insieme, con la voglia di star bene, in un contesto sano fatto di natura e movimento, fatto di musica vitale.


Un esempio per molti, cui si può solo essere grati.