C’è stato un tempo in cui sbarcavo il lunario impegnandomi
in attività disparate. Ero una entusiasta studentessa universitaria che cercava
di unire lavori intellettuali ad attività pratiche: avevo paura di finire come
quei soggetti capaci solo di sfogliare libri e tenere in mano la penna.
Dinamiche di un tempo perduto, ovviamente: internet non era ancora nelle case
di tutti e i computer non erano proprio alla portata di molti…
Così, dato che la sottoscritta era l’ultima persona entrata
nel giro, oltre che la più giovane, una società assicurativa mi affidò rappresentanza
e vendita di contratti presso gli asili comunali della mia città - quelli più scomodi
da raggiungere, ovviamente, situati nei confini del regno.
Mi si aprì uno
scenario sconcertante.
Già da allora mi occupavo di formazione, studiavo per
entrare nelle Risorse Umane, mi occupavo dell’educazione di bambini e ragazzi,
e scoprii, in quell’occasione, che nelle strutture pubbliche i nostri piccoli
erano affidati a persone dalla scarsa cultura e dalla dubbia educazione. I
bambini, individui delicati e fragili, un enorme potenziale da stimolare e
curare...in mano a chi cercava solo una retribuzione a fine mese, senza ben
capire realmente il contesto in cui operava.
Sono trascorsi anni da allora, e io sono ancora attiva in
quell’ambito che reputo fondamentale per la realizzazione e il mantenimento di
una società civile. E con cuore dolente mi tocca affermare che ad oggi questo
settore continua a vivere nell’oscurità della ignoranza e della finta buona
forma.
Nel tempo si sono susseguiti decreti legislativi contraddittori,
che hanno portato a confondere l’assistenza sanitaria con la cultura pedagogica
– gli operatori definiti tutti indistintamente EDUCATORI -, e l’infanzia
è diventata un unico calderone che identificava neonati e bambini di età
scolare, come se essere piccoli fosse un unico elemento distintivo rispetto al
mondo adulto.
Sono poi emersi numerosi scandali legati a fatti di cronaca,
a seguito di denunce di genitori ostinati, e alla messa in funzione di
telecamere nascoste nelle strutture dedicate: molti cosiddetti educatori, in
pieno esaurimento fisico e mentale, esercitavano il loro mestiere con i bambini
a suon di botte, strattonate, urla e male parole.
Si è finalmente dovuta affrontare la questione della loro
formazione professionale.
Ed è diventato un po' più chiaro che la diffusa affermazione
secondo cui “tanto sono piccoli, che altro vuoi fare se non intrattenerli e
cambiare il pannolino?” era un po' troppo semplificativa…
Decisori politici
hanno quindi decretato ancora, disponendo la distinzione ufficiale tra prima
(fascia di età 0-3 anni) e seconda infanzia (4-6 anni), tornando a
separare il settore socio-sanitario - di orientamento clinico - da quello
psicopedagogico a carattere educativo.
Si è infine stabilito che per operare con la prima infanzia
fosse obbligatorio aver conseguito un titolo specifico del corso di laurea in
scienze dell’educazione, con curriculum Prima infanzia. Gli altri
percorsi aprono le porte a lavorare nelle comunità anche con adulti, con
anziani, come animatori, nelle ludoteche e con extracomunitari. Le materie di
studio spaziano dalla sociologia, alla psicologia, alla pedagogia e anche un
po' all’area giuridica.
Per arrivare a questo abbiamo dovuto attendere l’anno 2020
(ieri l’altro, in poche parole).
Con un personale sversamento di bile faccio notare che il
corso di studi universitario in scienze dell’educazione è nato solo negli anni 2000
e che, in precedenza, gli educatori hanno potuto operare con i bambini (sui
bambini, mi correggo) avendo conseguito anche solo un titolo regionale della durata
di un anno di studi basato sull’apprendimento di materie umanistiche.
Il percorso dedicato alla prima infanzia, però, poco si
discosta da quello tradizionale, puntando sullo studio di alcuni moduli
formativi dedicati alla fascia di età 0-3 che, a contarli, richiedono al
massimo un anno di studi. Sono stati però inseriti laboratori obbligatori in
presenza che insegnano ad operare in gruppo, ad affinare capacità di ascolto e
di coinvolgimento, oltre che strumenti di mediazione e stimoli alla creatività
dell’operatore oltre che del bambino. E qui, finalmente, possiamo tirare un
respiro di sollievo, se non fosse che in alcuni atenei queste ore di attività
vengono evitate aggirando facilmente le regole.
In molte università, purtroppo, il carattere commerciale finisce
con il prevalere sulla missione formativa, e si cerca di venire incontro alle
esigenze di chi dichiara di avere poco tempo disponibile da dedicare agli studi:
viviamo in una società di clienti, purtroppo, in cui vige la legge del mercato.
Assistiamo così ad un curioso fenomeno di capovolgimento del
senso comune: se un tempo si studiava, anche a costo di enormi sacrifici, per acquisire
le competenze necessarie ad operare, oggi si cerca di conseguire titoli
accademici attraverso l’adozione di scorciatoie e agevolazioni, perché il tempo
da dedicare non può più essere tanto. Ormai l’obiettivo è divenuto il
conseguimento del titolo, a scapito del percorso effettivo di formazione.
Nasce dunque, nella mente di genitori preoccupati e
seriamente attenti allo sviluppo della propria prole, la ricerca di soluzioni
alternative… Dove andare, come fare?
Negli ultimi anni si è parlato molto dei cosiddetti “asili
nel bosco”, strutture educative che operano in maniera differente dal metodo
classico cui siamo abituati: bimbi che trascorrono ore in ambienti chiusi, senza
possibilità di correre e giocare a contatto con elementi naturali, spesso intrattenuti
con l’ausilio di strumenti video non sempre proprio educativi… E si, la televisione può essere un buono
strumento formativo, come la storia ha dimostrato, ma non ne esaurisce le
modalità.
Così, sulla scia di
quanto già accade da anni nell’area del nord Europa, anche il nostro paese ha
visto fiorire qualche “asilo nel bosco”, scuole che rispettano nel bambino il
suo essere naturale, individuo che necessita del contatto con la natura per il
proprio benessere e per uno sviluppo rispettoso aperto alla comprensione di sé
e dell’altro.
Ma il nostro paese si sa, riesce a far cadere ogni buon
proposito con la complessità burocratica che lo caratterizza, e queste tipologie
di scuole hanno dovuto far i conti con tante difficoltà, fino a chiudere o a
mutare i propri obiettivi di fondo, trasformandosi infine in scuole di élite
per sole persone dal reddito alto (sempre perché istruzione e formazione siano
un diritto di tutti!).
Ora, io conosco due persone a me molto care, novelli genitori,
altrettanto attenti a certi temi, che sono onestamente preoccupati per il
futuro delle loro figliolette. In questi
primissimi anni si arrovellavano nella ricerca di una soluzione che potesse
ritenersi dignitosa, fino a quando hanno deciso, e mi hanno inviato il
programma dell’asilo gratuito da loro organizzato nelle aree aperte del paese
in cui vivono. Si tratta di un luogo
interessante e per certi versi faticoso, un paese arroccato su una montagna,
fatto di pietre e persone. Al suo interno non circolano macchine né trabiccoli
a motore: si cammina e ci si inerpica su scalini fatti di pietre, a volte
piuttosto erti, a volte scivolosi.
E così ha avuto inizio un’avventura che sembrava aprire
molti quesiti, ma che si è rivelata una grande opportunità per tutti, sia
grandi che piccini.
Il paese presenta aree giochi e giardinetti curati dagli
abitanti, dove i bimbi si radunano la mattina con i volontari che, giocando, li
istruiscono, li correggono, li aiutano a socializzare e a capire cosa significa
vivere: stare con altri, a volte litigarci, imparare ad affrontare conflitti e
capire il valore dell’amicizia.
Ci sono stata anche io, in questa novella scuola, e ho
vissuto un’esperienza bella: finalmente ho sentito cosa significa vivere la
comunità e il tanto millantato valore della famosa inclusione. Bimbi
piccoli che imparano ad apprezzare gli altri, a conoscerli, a fidarsi, che si
contrappongono, si imitano e si aiutano. Che a volte si escludono e poi si
cercano, che ascoltano gli adulti coinvolti in attività divertenti che loro
stessi, con la propria fantasia, contribuiscono a orientare. Non ci sono mura
scolastiche a contenerli: sono benedetti dal sole e carezzati dal vento, si
scaldano correndo tra i vicoli, correttamente protetti da indumenti idonei,
ovviamente. La pioggia non fa paura, perché dona l’occasione ambita di poter schiacciare
l’acqua delle pozzanghere con qualcun altro. Li ho visti suonare sulle
ringhiere dei giardinetti con rametti secchi presi in terra, percuotere pezzi
di legno tra loro e ballare al suono delle mani ritmicamente battute su
superfici casuali, giocare con l’acqua delle fontanelle e con le foglie,
mangiare tra una risata e l’altra le giuggiole generosamente offerte dall’alberello
che sta in piazza, e rincorrersi per scaldarsi in una giornata fredda,
inventando storie di lupi cattivi e pecorelle smarrite (ma furbette!).
Ho condiviso le risate e placato le lacrime, ammirando l’attenzione
verso chi stava accanto, e godendo della delicatezza esercitata dagli stessi
bimbi nei confronti di quelli più piccoli. Beh, qualche spintone non è mancato,
ovviamente.
Alla giornata dedicata alla musica è seguita quella orientata
alla lingua, arricchita dalla presenza di bambini provenienti da famiglie di
nazionalità differenti. La giornata rivolta
alle foglie ha prodotto quadretti dai colori vivaci, composizioni allegre e
gentili fatte solo di natura e creatività.
E così ogni giorno una nuova lezione, all’aperto, vivendo,
gli uni con gli altri.
Mi ripeto che è così che si cresce, adulti e i bambini:
insieme, con la voglia di star bene, in un contesto sano fatto di natura e
movimento, fatto di musica vitale.
Un esempio per molti, cui si può solo essere grati.