Scrivo qui di seguito una riflessione in risposta al post pubblicato da Doriana Goracci su Agoravox
il10 giugno,
Premetto che la sottoscritta non è vegetariana né vegana, e che sono una persona che si alimenta con criteri di funzionalità e piacere, nel rispetto delle risorse che questo nostro mondo ci consente di cogliere.
Mio
padre era un medico e usava ripetere che il nostro organismo necessita di
sostanze diverse, incluse le proteine animali. Aggiungeva però che l’alimentazione
va fruita con intelligenza e misura, per evitare di danneggiare sé stessi e gli
altri.
Chi mi conosce o legge ciò che scrivo sa
che sono una persona che osserva il mondo animale – incluso l’uomo – con grande
curiosità e ammirazione. Condivido la formulazione singeriana che ha citato
Veronesi nel video del termine “antispecismo”: siamo viventi e coabitiamo il
mondo, che si fa mondo individuale
per gli uomini e per ogni specie vivente - tutti attori che lo vivono e
sperimentano a proprio modo. E questo è ciò che va rispettato.
Sento ancora troppo spesso parlare di “animali da compagnia”, una espressione mi fa irritare.
“Da compagnia” …
Gli animali sono tali perché vivi: in passato, nel definirli, si è fatto ricorso all’idea di anima, intesa proprio come soffio vitale (forte il dissenso, condivisibilissimo, di Stefano Mancuso che ne coglie altrettanto nelle specie vegetali, a lungo sottostimate dai nostri scienziati); dunque come decidere che un verme vale meno di un cane? Forse perché non ci guarda con occhioni teneri e non si avvicina per ricevere coccole?
Eppure, forse, un verme svolge funzioni
per il nostro pianeta più utili di quanto non possa fare un cane di
appartamento… (sembra che anche Veronesi sia caduto nella trappola)
E’ terminato da poco un interessante ciclo di conferenze indetto dall’Università di Firenze sul tema della conservazione delle specie animali, e su quanto la dimensione estetica influisca nella selezione e individuazione di quali ambienti e di quali animali siano indicati come meritevoli – rispetto ad altri – di attenzioni in tal senso.
Ciò che emerge da questi incontri, oltre alla necessaria collaborazione ai fini della comprensione complessiva del fenomeno tra le scienze umane e le cosiddette scienze dure, è proprio il fatto che molto spesso ciò che ci spinge a decretare è un fattore soggettivo, estetico: quel che ci porta a dire “scelgo questo perché mi piace, lo trovo più bello”.
Siamo esseri umani, con i nostri limiti e le nostre
necessità, e non possiamo né dobbiamo essere condannati per questo, ma vero è
che dovremmo aprire gli occhi e la mente – oltre che il cuore – dinanzi a
quanto ci circonda.
Ripeto spesso agli amici che trovo incredibile il fatto che l’uomo cerchi nello spazio altre forme di vita quando non riesce nemmeno a sorprendersi per quelle che lo circondano.
Io, da qualche tempo, ho la fortuna di vivere in campagna e di avere un piccolo giardino a disposizione in cui deliziarmi come non ho mai potuto fare quando vivevo in città. Trascorro molto tempo all’aperto e osservo e ascolto, e mi trovo spesso a sorprendermi e a sorridere.
Le mie passeggiate nei campi includono incontri con animali che si rivelano curiosi quanto me: mi fermo ad osservare viventi che fanno altrettanto, che si avvicinano e con i quali si realizza una forma di comunicazione che non so definire.
Non è verbale, ovviamente, e non è solo fisica. E questo è bello. E’meravigliosamente bello.
Recentemente sto avendo incontri ravvicinati con animaletti particolari come le tartarughe, delle quali si dice un po' di tutto. Mi sto documentando e sento definirle come fredde, limitate ad azioni volte alla sopravvivenza, primitive e stupide.
Sto sperimentando il contrario, in barba alle tante parole scritte e diffuse attraverso la vulgata.
A fronte della messa a disposizione di spazi ampi e di cibo in abbondanza, loro si mostrano golose, cercano l’ultra che dà loro piacere, e riconoscono chi è in grado di fornirne: questa non è sopravvivenza, ma capacità di scegliere seguendo il piacere.
Si
avvicinano alle mani di chi fornisce loro il cibo extra, e se le trovano vuote
(nel senso in cui non è presente il pezzetto di mela che a loro piace tanto, o
la fettina di fragole che fa loro impazzire), allora le vedi esercitare
colpetti ripetuti col becco, con delicatezza e senza intenti aggressivi, e poi rivolgono
il loro piccolo muso in alto, verso la persona, aprendo e chiudendo
ripetutamente il becco per inviare un chiaro messaggio di richiesta.
Se poni degli ostacoli sul terreno, anziché seguire i loro
normali percorsi – le tartarughe sono delle grandi camminatrici – optano per le
difficoltà e scelgono il pericolo arrampicandosi a rischio di ribaltamento. Se
poi trovano una rete di contenimento che impedisce loro di procedere verso uno
spazio inesplorato, in barba all’ampio territorio che hanno a disposizione, si
ostinano a voler andare oltre, cercando di scalare la rete, facendo la ronda
avanti e indietro, in cerca di una via di fuga.
Eccomi dunque concordare con il vecchio Darwin, quando
sosteneva nei suoi taccuini di viaggio che anche gli animali più lontani dal
nostro modo di vivere hanno il senso del gioco e agiscono in funzione del
piacere, non solo della sopravvivenza.
Ha ragione Veronesi nel dichiarare che noi tutti dovremmo cambiare il modo di approcciare la vita, ma non solo perché abbiamo “il dovere di sviluppare una coscienza etica”, come lui sostiene, bensì perché apparteniamo ad una rete vivente che ci consente di esistere.
L’etica non è un dovere, a mio parere, ma una dimensione strutturalmente nostra.
Il dovere sta nel cogliere
questo, come può esserlo il fatto di avere un corpo che va nutrito. Il dovere
del rispetto per la vita, che è anche il rispetto per noi stessi.
Come possiamo chiudere gli occhi davanti a ciò che siamo?