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Buona lettura!

martedì 27 settembre 2022

DUNAMIS

 

 

Un’amica mi invia una rassegna di articoli pubblicati dal Sole24ore e mi chiede cosa ne penso. Leggo e mi infiammo, come spesso accade.

 Il primo parla di come il linguaggio attuale, utilizzato, diffuso e rilanciato dai social media non faccia che impoverire la nostra capacità di articolare il pensiero: una lingua povera dice poco, non rispetta le differenze né le sfumature, ci spinge ad un fare frettoloso e pressapochista. 

Questo è effettivamente un fenomeno vivissimo con cui mi confronto nel corso delle giornate lavorative: studenti universitari che si esprimono in modo stringato e incomprensibile, in maniera confusa, e si infastidiscono se si chiedono loro chiarimenti.

Nel linguaggio quotidiano si infiltrano espressioni televisive, neologismi di giovani influencer, si dimentica la grammatica e si ricorre spesso a emoticons e abbreviazioni personali. 

Scrivere è diventato faticoso e fastidioso perché toglie tempo.

Il pensiero va alla mia adolescenza, alle lunghe lettere scambiate con amici lontani in cui raccontavo eventi per me significativi e descrivevo emozioni personali.

Quei fogli scritti di pugno portavano ai destinatari una parte della mia vita e avevano per me un grande valore: mi raccoglievo nel silenzio della cameretta e liberavo il piacere dello scambio. Col tempo la carta ha ceduto il passo a tastiera e monitor del pc… era bello intrattenersi con sé stessi per incontrare gli altri.

 La mia è stata una generazione “lenta”, che viveva di letture, di sport e passeggiate all’aperto. Le conversazioni private a distanza si svolgevano per via epistolare o attraverso le cabine telefoniche: buste, francobolli, gettoni e tessere plastificate…pensare che ora bastano un click e una sfiorata di monitor.

Ad oggi sembra che nessuno di noi abbia mai abbastanza tempo per fare ciò che vorrebbe, o anche solo ciò che è necessario fare: corriamo, corriamo sempre perché “non c’è tempo”. Dobbiamo preservarlo, questo poco tempo, dobbiamo ottimizzare, fare quante più cose in contemporanea.

Ma che cosa è successo? Dove abbiamo fatto finire il “nostro” tempo?  Non riusciamo più nemmeno a sederci intorno ad un tavolo per confrontare le esperienze fatte.

 Ci stiamo abituando ad assistere a conversazioni ridotte all’osso, cristallizzate in espressioni standard ripetute ovunque e da chiunque, spesso contratte in immagini, filmatini dai nomi moderni (i rill, le storie…), e tutto va pubblicato on-line perché si sappia che “ci sono anche io”. Tutto in vista di un rapido consumo, effimero come certi messaggi che i social fanno cancellare non appena visionati. 

Sembra che la conferma della propria esistenza sia demandata sempre di più allo sguardo pubblico: più mi vedono e più esisto. 

Un pubblico amplio e abbastanza anonimo, quel “man” a cui la filosofia tedesca dello scorso secolo ha attribuito il senso dell’”Inautenticità”: si dice, si pensa, si fa… Si, ma chi?

Corriamo quindi verso uno stato di anonima confusione, uniformandoci ad un sistema che spinge sempre più all’identificazione collettiva, una identificazione schiacciata verso il basso, verso l’elementare e il banale, dove le mosse e le trovate più stupide e insensate diventano facilmente virali e vengono spinte all'esasperazione.

 Fino a diventare modello per molte persone, e non solo tra i giovanissimi. Proprio di recente mi son imbattuta nel fenomeno del "parlare in corsivo", un modo distorsivo di emettere suoni linguistici che ha fatto scalpore in pochissimo tempo. 

Di recente ero con un amico al cinema, e lui mi ha detto: "Vedi, il mondo cambia... e il cinema ce lo restituisce, ce lo fa vedere"…E' proprio così. Si trattava di un film gettonato, ma era pregno di citazioni di altri film, imitazioni e battute banali scontatissime, e sentite mille volte nei film del passato. Dopo un quarto d'ora ci siamo chiesti se non fosse meglio tornare a casa... Il mondo cambia, ma deve per forza retrocedere?

 Un secondo articolo osannava alla rivalsa della donna grassa nella società attuale: le donne (alcune) finalmente si liberano dello sguardo–padrone dell’uomo-maschio che le vuole snelle e quasi anoressiche, un diktat che non ha pietà per le taglie forti che, pure, una volta erano considerate attraenti…

Un articolo che rientra – o ne esce – nella stessa logica e che esibisce la forza coercitiva e condizionante di un mercato anonimo, che non è maschio né femmina, e che orienta i gusti in funzione meramente economica.

E’ vero che uomini e donne hanno subito sempre gli influssi della moda del momento, ma oggi questa voce si è fatta più suadente e invasiva: ormai gli algoritmi informatici dominano le nostre scelte senza che ce ne rendiamo davvero conto. Nuovi strumenti conseguiti dall'evoluzione delle neuroscienze e dagli effetti prodotti dallo sviluppo tecnologico rendono potente quella pubblicità anonima che Heidegger demonizzava cento anni fa. 

Allora non esisteva internet, le persone non si incontravano in ambienti virtuali e non trascorrevano tanto tempo sui canali social. Le mediazioni e le distorsioni accadevano in altro modo, di certo in maniera meno infida e seduttiva.

 La dispersione e l’overdose di informazione e disinformazione provocano il caos, e la ritmicità sfrenata della corsa continua impedisce la riflessione. E’ verissimo che l'utilizzo di un linguaggio povero, stringato e fumettistico riduce la capacità di articolare il pensiero e indebolisce la mente. 

Eccolo l'uomo, individuo solo che corre e che consuma, e che crede in questo di essere libero. Viene da chiedersi cosa sia davvero, in fondo, la libertà, e quanta mai l’essere umano possa averne saggiata. 

Ogni epoca usa i suoi strumenti e dietro le quinte se la ridono quei soggetti che ne fanno uso: espressione, questa, di intelligenza, sia pure mal orientata.  

E’ dunque possibile usarla e alimentarla, e volgerla in direzione diversa. Perché siamo così lenti?