Il Mio Blog non vuole essere un monologo, ma un invito all'incontro: pertanto sono graditi i commenti e il succedersi degli scambi che ne conseguono.
Buona lettura!

lunedì 21 novembre 2016

Ascolto globale



Ho selezionato un numero telefonico, ho preso un appuntamento e mi sono poi recata all'indirizzo convenuto per farmi sistemare la capigliatura.
Fin qui tutto nella norma: le presentazioni, tolgo la giacca, una breve attesa su un comodo sedile, e poi è arrivato il momento. 

Mi raggiunge un ragazzo, sottile come un fuscello, un pò curvo sul suo scheletro, lo stesso che avevo osservato, allegro, in giro per il negozio, ad elargire brevi consigli e pacche sulle spalle. Ha lo sguardo dolce e i modi gentili. 

Siedo e lui mi fa una domanda: "dimmi, perché sei qui?". Rispondo sorpresa che sono lì per tagliare i capelli, e quindi lui riformula: "ok, allora dimmi cosa ti ha spinto a venire qui, cosa non ti piace, cosa ti infastidisce di quello che vedi su di te, e cosa vorresti vedere. Io poi, attraverso le mie conoscenze tecniche, ti dirò cosa possiamo fare e come."

Questa situazione mi ha colpita per la sua serietà. Io lavoro in un contesto molto articolato, in continua interazione con uffici diversi, con i quali effettuo scambi costanti di richieste e risposte - in base alle esigenze e secondo le competenze.
Forse è proprio l'inganno della quotidianità, quello che ti spinge a presupporre le informazioni che non chiedi o che non dai: in effetti avviene spesso che più siamo in confidenza con i nostri interlocutori e meno ci ascoltiamo.
In un certo senso, volenti o no, ci rispettiamo poco.

Bussa un estraneo alla tua porta: gli chiedi chi è, cosa vuole, e come pensa che tu possa essergli utile.
Osservi un annuncio di lavoro, e ti confronti con le tue competenze per vedere se sono quelle necessarie.
Ma quando subentrano la confidenza e l'abitudine, cala un certo velo di nebbia e, con esso cala anche l'attenzione necessaria. 

Leggevo da qualche parte che noi tutti siamo disposti più a parlare che ad ascoltare. Ci piace raccontare di noi, esporre il nostro pensiero e trovare nell'altro la conferma della nostra esistenza.  Secondo un esperto di coaching aziendale, tale Robert James, il confronto interessa davvero a pochi, e questo perchè il dialogo, se ben strutturato, può rivelarsi uno strumento in grado di  porre in discussione i nostri principi, e quindi di destabilizzare delle convinzioni. Ecco perchè, in sintesi, il mondo del marketing si è trasformato in un grande enorme orecchio in ascolto, intanto che innumerevoli stimoli, bene o male mimetizzati, punzecchiano le nostre reazioni. 

Il parrucchiere: una professione, la richiesta e l'offerta di un servizio.
Rifletto: quante volte mi sono trovata in un'analoga situazione?

C'è stato un periodo, nel corso della mia formazione, in cui svolgevo uno stage presso una società di selezione e formazione del personale: mi occupavo dei colloqui per società committenti, valutando le caratteristiche dei candidati che intervistavo. Il modo in cui lavoravo piaceva, e così il capo decise di portarmi con sé, e di inserirmi in una fase più avanzata: l'analisi dei fabbisogni formativi. Non dovevo più solo individuare certe caratteristiche, ma cogliere tra le presenti quelle più utili allo scopo. Si trattava di intervistare il committente per capire cosa proponeva alla sua clientela, cosa realmente riusciva a realizzare, e cosa facevano le sue risorse per raggiungere quell'obbiettivo. Questo lavoro costituiva le basi del lavoro suddetto di selezione. 

In sostanza, rispondevo all'estraneo che aveva bussato alla mia porta e gli chiedevo chi era, cosa voleva, e cosa si aspettava che potessi fare per lui.

La mia naturale curiosità è stata di grande aiuto: ho imparato a stare in platea ad osservare. Con le orecchie, con gli occhi e con il naso. Tutti i nostri sensi convergono nel confermare o disconfermare l'autenticità dell'informazione che ci è pervenuta verbalmente. 
Per dirla tutta, stavo formando già la mia persona in tal senso, attraverso gli studi che portavo avanti con ingordo interesse in ambito psicologico, e il duro lento percorso di consulenza personale... Motivo per cui questo stage fu una grande opportunità di apprendimento, e una fantastica esperienza lavorativa - sia pure non retribuita.  Imparavo e facevo: a me stava bene così.

Molto spesso le persone si parlano addosso, una sull'altra anziché una con l'altra. Non ci si ascolta.
In un post precedente ho scritto del suono, della musica che può uscire da ogni vivente, e di come a volte basta poco per farlo uscire laddove non sembra proprio esserci nulla: come uno strumento musicale realizzato da un fusto secco di cactus (il bastone della pioggia).

Ma l'arguto commento di uno spietato lettore mi ha obbligato a guardare più in là.
Un oggetto ormai privo di vita, se sapientemente organizzato e manipolato può mutare il proprio silenzio in un suono: una voce che sa evocare esperienze vitali. Ma quel  suono, quel richiamo...E' reale?
Ossia: il bastone della pioggia emette una sonorità acquacea perchè ha acqua dentro di se'? No: ci sono oggetti, cose che scorrono scontrandosi al suo interno.

Perché l'acqua scorra davvero tocca recarsi lungo un fiume, e questo è bene tenerlo a mente!

 La manipolazione delle informazioni e dei dati arriva a confondere i nostri sensi, coinvolgendoli, ammiccando e facendoseli amici, secondo una modalità furfante che ha tutto il sapore amaro del tradimento. Come l'amico che ti fa fare da prestanome nei suoi affari per poi lasciarti nei guai alla resa dei conti.

E quindi ci tocca tornare al vecchio Parmenide: ci siamo! E quindi dobbiamo riprendere il passo a partire proprio da noi, dell'interno di ciò che ci permette di esistere. 

Possiamo infrangere le insidiose illusioni solo ponendo attenzione a quanto ci accade, ascoltando: ossia prestando l'ascolto dovuto al modo in cui il nostro corpo reagisce all'informazione arrivata.
Che sia una fitta alla schiena, come una coltellata inattesa; un torpore alle gambe come se non dovessi procedere oltre in quel luogo o in quel modo; un occhio che "balla", come fossi un cecchino che prende la mira; una spalla dolente perchè incapace  di sopportare quel peso... Basta un odore che mi colpisce lo stomaco come si fosse trattato di una concreta aggressione... Basta una immagine, che sinteticamente mi espone la situazione che sto vivendo!

..Viviamo in un sogno, o è il sogno che sogna di noi?  Chuang Tzu se lo chiedeva 2400 anni fa:
"questa notte ho sognato che ero una farfalla: ora io non so se ero allora un uomo che sognava d'essere farfalla, o se io sono ora una farfalla, che sogna di essere uomo".

La risposta dipende da quanto siamo disposti ad ascoltare...











giovedì 17 novembre 2016

Le dinamiche dell'horror: sugli zombie


Mi piace il confronto: chi mi conosce lo sa. E siccome Giorgio Tullio De Negri ha trattato diffusamente in questo articolo un tema piuttosto interessante, mi metto comoda e inizio a comporre il mio commento.
L’uomo è un essere vivente e il vecchio Maslow, a suo tempo, ci ha ben illustrato come l’esigenza del nutrimento sia alla base di qualsiasi processo di futura possibile evoluzione: se non mi nutro, semplicemente, muoio. Inutile parlare poi di evoluzione. L’autore stesso dell’articolo sottolinea il carattere di paradossalità rappresentato dal fenomeno "zombico" del mangiare per non-vivere: un morto, uno che non è vivo, come scrive giustamente, non necessita di nutrimento. E non è questione solo di "assaporare" e "gustare", aggiungo io, ma proprio del primario e basilare fenomeno della "metabolizzazione".
La contraddizione però si espande fino alle sue parole, a parere mio, li' dove arriva a sostenere che il fenomeno in questione sia "una tendenza arcaica dell’essere umano", "un retaggio primitivo". Il vivente ha l’istanza di vivere, e quindi di nutrirsi, di metabolizzare. Ciò che ci piace lo mangiamo letteralmente e metaforicamente proprio per via di questo nostra istanza primitiva (questa si che lo è) che ci spinge a vivere ed evolvere, metabolizzando ciò che dell’ambiente ci attrae e ci suona utile (piacere incluso, ovviamente).
E’ ormai ampiamente diffusa la notizia secondo la quale bambini e animali - gli istinti dei quali sono ancora piuttosto scevri dai condizionamenti culturali e sociali - rifuggono dai sapori amari, essendo essi particolarmente presenti in sostanze velenose e quindi nocive. Loro non lo hanno letto sulle riviste scientifiche: semplicemente rispondono al proprio istinto di sopravvivenza.
Tensione a vivere, quindi, non a morire o non-vivere.
De Negri scrive che, nella realtà filmica come anche in quella reale, lo zombie diventa tale a causa dell’altro che lo ha morso, ma lascia del tutto in ombra l’aspetto di grandissima importanza che rimanda a "la scelta": la vittima accetta di subire l’altro dietro la seduttiva promessa di un piacere secondario: amore, piacere, forza infinita, vita eterna etc.
Se tengo chiuso l’uscio della mia casa nessuno può entrare, ma se desidero la bella mela rossa che mi porge la strega finirò con l’assumerne anche il veleno!
Tu seduci e prometti, io mi apro al contatto e mi infetto.
Mi permetta l’autore di spingermi oltre: lo zombie non è tale solo perché tratta l’altro come un oggetto o come strumento per il raggiungimento di un fine - sia pure esecrabile, per carità : l’uso strumentale dell’altro non fa di me un mostro - come ha ampiamente argomentato un certo Machiavelli! Divento mostro nel momento in cui mi allontano dalla mia naturale condizione di uomo: un fantastico sistema vivente che, nel rispetto di sè stesso, mira a mantenersi tale e ad evolversi secondo un proprio progetto originario: ciò che mi fa essere umano, e umano proprio in quello specifico modo che mi caratterizza.
Il reato, dunque, non risiede in una carenza affettiva da parte di chi nutre, ma troppo spesso da chi eccede nel farlo: di chi si sostituisce all’altro viziandolo, e quindi inibendolo fino a castrarne la naturale sana tendenza evolutiva.
L’individuo che apprende in fretta a conoscere e sviluppare la propria autonomia sarà presto un individuo adulto, libero di incontrare il mondo e metabolizzare la vita; colui che viene invece soffocato da insistenti attenzioni e preoccupazioni "affettive" e "sostitutive" diventa proprio quel brutto involucro non-vivo che necessita di nutrirsi della vita altrui perché non in grado di metabolizzare in prima persona. Uno zombie è quindi un ladro di energia, per semplificare, che è diventato vittima della propria incapacità a vivere a causa di una scelta: la accettazione comoda di un vantaggio solamente apparente.
E va da se che nel riempire se stesso svuota l’altro, rendendolo uguale a se stesso. Il fatto che non si dia autonomia metabolica fa si che il furto debba essere reiterato ogni volta che le riserve si esauriscono: non c’è vita!
Non è la "rabbia" quindi che uccide, ma la mancanza del sano amore (quello che consente il sano sviluppo evolutivo biologico ed esistenziale) che assume la maschera di incondizionato amore, quello che letteralmente SOFFOCA di attenzioni la persona verso cui è diretto. E quest’inganno impedisce la realizzazione del naturale quanto auspicabile e fondamentale processo di autonomizzazione individuale, indirizzando verso quella che non può essere chiamata vita.







mercoledì 16 novembre 2016

Il bastone della pioggia


Ieri ho aiutato un amico a fare pulizia in casa: abbiamo svuotato un armadio, imbustato e gettato via molto cose inutili, o logore. 
 Abbiamo rimosso, insomma, la zavorra ingombrante.

Personalmente mi libero volentieri delle cose vecchie, quelle legate a memorie, emozioni o situazioni che non mi hanno dato piacere, che me lo hanno dato in maniera fittizia o che, semplicemente, non ha più senso tenere con me.
Credo sia perché non mi piace imprigionare le immagini: che si  tratti di oggetti, di filmati o fotografie. Preferisco che scorrano dentro di me, per poterci tornare di tanto in tanto, e ritrovarle così come mi sento in quel momento.
Lo trovo più utile, e forse anche più onesto.

Abbiamo spostato molti oggetti lasciando che ne emergessero altri, e tra questi è apparso anche un bastone della pioggia.
Si tratta di uno strumento musicale, realizzato attraverso il fusto secco di un cactus. All'interno sono conficcate le sue stesse spine, alcune pietruzze e piccoli frammenti di vetro. Il tutto viene alla fine sigillato da entrambi i lati.

A vederlo, è solo un bastone di legno, ma poi lo giri da una parte e dall'altra e inizia il suono, che puoi modulare gradualmente.
Gli oggetti si scontrano lì dentro, e dall'urto leggero esce un canto che ricorda quello dell'acqua che scorre. Un suono che evoca il percorso del fiume tra le rocce, in ambienti naturali e isolati, ambienti reali ma lontani dalla quotidianità civile. 

 Luoghi che ho incontrato e ai quali mi piace tornare.

Un bastone, una pianta essiccata con le sue spine: niente membrane tese, niente corde aggiunte... Nessuno che ci soffi attraverso. Solo un fusto con i suoi elementi: le sue spine e le sue piccole pietre.

Mi viene da pensare alla musica che emettono gli esseri umani: quell'odore, quella tensione, quella strana sensazione che proviamo nell'accostarci a qualcuno. Accade, a volte, di percepire un'armonia acquatica che sa di sole.

 Noi, con le nostre spine conficcate dentro, e con i nostri piccoli sassi. Forse  perché restiamo fermi, non trovando chi ci rovescia da una parte all'altra a far scorrere i nostri elementi; ce ne restiamo lì impalati, come fusti secchi e non ci accorgiamo, non crediamo di poter offrire suoni diversi: basterebbe rovesciare la parte che teniamo nascosta, e metterla in posizione diversa.
 
Il bastone della pioggia è uno strumento antico, utilizzato nei riti propiziatori, nella convinzione che quel suono così magico potesse evocare l'acqua, fonte di vita e garanzia di sopravvivenza. Veniva così messo in movimento, con ritmi variabili, in attesa paziente.

Come a dire: similia cum similibus curantur.





Abbiamo tanto da apprendere da coloro che ci hanno preceduti su questa terra. 







mercoledì 9 novembre 2016

Ancora Cezanne



Ancora Cezanne. Sulla scia dell'ultimo post e dei commenti che ne sono seguiti, decido qui di puntare uno spot su "la punta dell'iceberg", un iceberg di terra: la montagna di Saint Victoire.

Cezanne fu un artista infelice come molti altri della sua specie. Un innovatore, e quindi un solitario... Rimase incompreso fino alla morte. Con il suo lavoro si contrappose alla rigida e formale tradizione, vivificando le forme con colori accesi e screziati che prevaricavano le prospettive e costruivano una nuova materialità alle immagini.

Diverso, quindi, nel suo modo di osservare e restituire la realtà che lo accoglieva.

Frequentò importanti scrittori e artisti dell'epoca, studiò con gli impressionisti e condivise con loro il piacere del plen-air: lavorare all'aperto, a diretto e immediato contatto con la natura. Egli ascoltava e riproponeva quegli infiniti e sorprendenti giochi di luce e colore che la vita offre di continuo.

Negli ultimi vent'anni della sua vita era ossessionato da una particolare immagine: produsse oltre sessanta lavori tra disegni, acquarelli, schizzi e pitture che riproducevano, da prospettive diverse e nell'arco di alterne stagioni, una visione della stessa montagna: si trattava del monte Saint Victoire, che dominava la sua terra natia.

L'artista si immedesimò a tal punto con questo elemento da finire i suoi giorni proprio nello sforzo di riprodurlo, nella logorante attività di mostrarne al mondo le forme che variavano nella sua mente e davanti ai suoi occhi: dentro e fuori di sé. 

E nonostante si desse da fare per rappresentarne di volta in volta in veste diversa,con luci, colori e accessori vari, non poté celare a nessuno la continuità di ciò che identificava come il suo sogno ricorrente: una montagna che, lentamente e in modo inesorabile, si accasciava al suolo, perdendo forza e maestosità, sbiadendo e contraendosi nelle sue parti componenti, raggrumate finalmente in modo spezzato e sfocato...

Cezanne utilizzava i pennelli per parlare col mondo, e per gridare il suo dolore.  

Daniele Bernabei, nel commento al mio ultimo post, ha messo in evidenza ciò che l'artista ha rappresentato nel famoso dipinto La rupe rossa: il disfacimento quasi completo che precede di poco la morte, il grande volto di un uomo appena riconoscibile nella sua decomposizione, e una piccola lapide a forma di osso verticale come autografo.

In ciò che realizza, ogni autore rappresenta se stesso: disegna i suoi sogni e li offre a chi ha voglia e capacità di osservare.
 Spesso senza essere in grado lui stesso di leggere il proprio segno.

Sin dall'antichità sognare erba che cresce sul corpo è stata indicata dagli addetti ai lavori come indizio di morte imminente: i vivi viaggiano sulla terra e per mare; i morti sono sotto terra, e la vegetazione li sovrasta, fino ad inglobarli e nutrirsene.
Così la morte rende la vita, in una novità che sa di principio.

Quel quadro fu composto negli ultimi anni di vita. 

Lateralmente, in primo piano, è denunciata la causa della sua ossessione, rappresentata dalla simbologia di una sessualità perversa e involutiva, statica nella sua rigidità, e accesa nella sua rossa aggressione (si veda il commento al commento).

Se l'artista avesse avuto la competenza opportuna, o avesse fruito di una consulenza adeguata, avrebbe potuto probabilmente evitare di morire di polmonite, per strada, durante il ritorno di una delle sue scampagnate finalizzate a rappresentare, per l'ennesima volta, il male che lo affliggeva.

Sono insistente ma a ragion veduta, quando torno ancora a ripetere che le immagini, nella loro universalità, DICONO NOI.










.. La rupe rossa:






domenica 6 novembre 2016

Giocatori



Mi sfiorano coriandoli di autunno in una giornata che ha ancora il sapore dell'estate, intanto che scivolo tra le vie della città che mi ospita mentre frugo tra i pensieri. 

Non ho dormito molto, stanotte, giusto un pò: mi sono alzata col buio e ho bevuto un buon caffè, godendomi quella confortante sensazione familiare.
E ora sono qui, tra persone indaffarate, che intrecciato ore e azioni, e che producono pensieri. 
Un giorno tra tanti.

Tempo fa scrissi un racconto: diedi corpo ad un dialogo che sfilava via da un quadro intanto che lo osservavo: i giocatori di carte di Cezanne. Due uomini seduti, ognuno totalmente assorto in se stesso, immersi in una luce bianca, un tavolo tra loro e alcune carte tra le mani.

In quella stasi pittorica creai un rimpallo di espressioni tra due individui che non riuscivano a comprendersi. E più insistevano nel tentativo di fare chiarezza e di attivare un dialogo, tanto più ingarbugliavano la situazione, accrescendo il livello di incomunicabilità. 

Tanto rumore, ma nessuno scambio: solo suoni che occupavano, come invadenti e lunghe collane, quella luce bianca e ferma. 

Vicini ma lontanissimi, prigionieri di un isolamento personale in un contesto obbligato, a fingere di condividere un'azione e la sua stessa meta.
  Quell'immagine mi parve un inno alla fragilità umana, alla solitudine che ci appartiene; mi parlava di quanto può esser facile fingere di stare insieme e di volerlo fare, quando siamo tutti presi da noi stessi e dai pensieri.

 Una immagine e la mia persona.

In questi giorni ho avuto modo di osservare una congrega di persone convinte di far azione comune, dirette ad un obbiettivo condiviso, ma totalmente ignare del disegno che contribuivano a delineare. Andavano troppo di corsa per poterci pensare, dicendo di non averne il tempo. E si affrettavano da una scelta all'altra, arrancando, costrette, nello stesso spazio esiguo.

 Sbirciavo dalla posizione esterna quello stato turbolento e vorticoso che si espandeva ad oltranza, come un ampio forzato respiro, ad occupare lo spazio disponibile, poggiando su qualcosa che non c'era: sopra le correnti insostenibili; sotto una stasi muta.

Ognuno assorto nel suo fare, in affanno, di corsa... Azioni, voci ed espressioni concitate: un galleggìo malsano sopra un mare scuro; rumorosi lampi incrociati sulla superficie di uno strano vuoto.

Ed ecco che tale frenesia ha evocato in me il ricordo di quel quadro, e le emozioni che esso aveva stimolato: ero di nuovo spettatrice di una staticità innaturale mascherata da azione. 

Non ho sentito vita, non respiravo allegria: solo idee confuse e male espresse dentro un'atmosfera artificiale che soffocava il mio sguardo e quello di pochi altri.

Di nuovo quel quadro, in cui gli attori, ognuno assorto in se stesso, sembravano impegnarsi in un gioco.

Figure in risalto sullo sfondo scuro, ed immerse in una luce fredda.









mercoledì 2 novembre 2016

Un sorriso... Mostruoso



E anche stavolta è passata: il giardino dei vicini pieno di zucchette colorate, ragnatele giganti, pipistrelli e occhioni spalancati incollati sui muri e sui sassi. I lampioncini del vialetto coperti con lenzuola su cui sono disegnate espressioni di comico terrore...

Il 31 ottobre, la festa di una cultura lontana che grazie alle voglie del mercato viene assimilata nelle nostre abitudini, acquisita nel nostro immaginifico e condivisa in allegria.
Si tratta di un evento originariamente finalizzato ad esorcizzare la paura della morte, un modo come un altro per dare risalto alla vita e ricordare che tutto scorre...

Ognuno poi, come per qualsiasi evento, ci mette dentro qualcosa, modificandolo un pò.
C'è chi gioca sul senso di paura: la ricerca del brivido estremizzata in una occasione condivisa; chi si diverte a indossare altre identità, prevalentemente fantastiche; chi gioca con gli scheletri, le cui espressioni variano dal terribile al simpaticissimo.

Da piccola anch'io giocavo con gli scheletri: era divertente soprattutto vedere l'espressione di sdegno che questo provocava sul volto della nonna, guardiano terribile e triste - lei si che incuteva paura!

Mi piaceva sconvolgere un ordine improbabile che mi veniva imposto, le cui tinte dovevano richiamate il rosa confetto di una realtà inesistente, quanto voluta: tutto in equilibrio, tutto pulito, tutto ordinato... Calma piatta: una noia mortale.

Mortale, appunto, e allora io quei morti (gli scheletrini) li facevo giocare, inventavo storie divertenti, li facevo comparire nei luoghi della quotidianità: che fosse il ripiano della cucina piuttosto che le pieghe del divano... Ma erano spiriti buoni, allegri e giocherelloni... Erano amici!
Mia nonna però non lo capiva, e si sforzava di non esplodere manifestando il suo rancore per una vitalità che non riusciva a fare propria.

Il web impazza di commenti su quanto siamo assurdi nel far nostra una cultura impropria, o su quanto sia importante alimentare la voglia di giocare nei bambini; rimproveri agli adulti che si lasciano contagiare da sciocche euforie commerciali, o riflessioni culturali sul senso originario e profondo di questa festività...  
Personalmente ritengo che il gioco sia una delle attività fondamentali dell'essere umano, e quindi va incoraggiato e perseguito con ogni mezzo, e in qualsiasi occasione.
Non c'è niente di più bello di una persona felice, che ride divertita per qualcosa che la fa star bene. La gioia ci illumina e ci rende vivi.

In particolare, i bambini hanno una naturale tendenza a utilizzare i mostri come amici, a smitizzarne quell'aria di mistero e di paura che siamo soliti affibbiare loro. I bambini se la ridono, e noi tutti dovremmo imparare da loro: i mostri sono brutti solo per chi non sa osservarli, per chi proietta su di loro quelle immagini che nasconde dentro di sé - perché non le capisce o non ha il coraggio di affrontarle.

Lo ripeto di continuo e non smetterò mai di farlo: la potenza delle immagini non può e non deve essere sottovalutata: esse ci conducono, ci influenzano, ci determinano. E così come i mostri, dobbiamo imparare a riconoscerle, a gestirle, ad usarle. 
Imparare a coglierne la sostanziale utilità!

E allora basta con i tediosi discorsi intellettuali: se gli uomini si esercitano a giocare con i mostri sin da piccoli, da grandi non li subiranno.

Ricominciamo da li: impariamo da loro... E torniamo a sorridere!