Il Mio Blog non vuole essere un monologo, ma un invito all'incontro: pertanto sono graditi i commenti e il succedersi degli scambi che ne conseguono.
Buona lettura!

mercoledì 29 marzo 2017

PASSAGGI



Un vecchio refrain: le parole possono dire di noi e degli altri, e descrivere cose, eventi, o solo impressioni emotive. Con esse possiamo indicare nomi e cognomi, descrivere fatti accaduti, vagare intorno a cause che proprio non sappiamo vedere; o evidenziare soltanto lo schema che sottostà a quegli eventi.

Quest'ultimo è proprio il mio modo: non mi importa che si tratti di x o di y, ma solo quanto è accaduto. Mi si rimprovera che invece tutto è importante: le date, i nomi, le singole azioni... E si, ne convengo... Ma per chi, e per cosa?
Ciò di cui vado a parlare è quanto va destando la mia riflessione: ha provocato in me una reazione e l'esigenza di soffermarmici sopra. Adesso per me conta quello! Non altro, ma quello! 

Parlo con le persone che incontro e tendo ponti sottili, che a volte ritengo opportuno ingrossare, e allora li rendo robusti con contrafforti pesanti. Ponti di vita a garanzia di passaggi, di viaggi, per chi abbia la voglia ed il coraggio di intraprenderne alcuno.

I lavori possono andare a rilento per vari motivi, oppure andare avanti veloci, ma non è detto che continuino a lungo: per questo è necessario un impegno oneroso e molta pazienza, soprattutto il rispetto per sé e per chi interagisce con noi.
Gli aggiustamenti sono continui, in risposta a quanto succede: fare attenzione alla neve, ai venti autunnali, e al bruciore dell'estate che sbriciola tutto, finendo ciò che l'inverno ha ferito.

Creare ponti per garantire passaggi, perché da un luogo si possa raggiungerne un altro, ed esser liberi di decidere, alfine, la direzione da prendere.

A volte però, in questo gioco, un certo timore può incollare le gambe al terreno, annullando il progresso. Il dubbio, alimentato dal desiderio infantile di chi ci si aggrappa alle vesti può confinarci in quella terra da cui proveniamo. L'egoismo di chi non sa fare per sé, e ha bisogno di noi per rimpinguare la sua misera borsa, sovente, ostacola il passo, e con sussurri maligni alimenta in noi la rinuncia.

Così finisce che lacrime ostili mettono a rischio la scelta che vogliamo attuare per noi. 

Il sì e il no: un gioco dal premio vincente o dall'esito infausto. Rimango e so già cos'avevo; procedo e vado incontro a quanto ancora mi è ignoto.
Se resto, però, non trovo più il mio passato, ma il passato che mi ha spinto a cercare, a cui ho voltato le spalle, e a cui mi sono rimesso per personale pochezza.
Un passato che accuserà il mio insuccesso.

Non sarà come prima: sarà peggio di prima.

La clessidra impietosa consuma i suoi grani, li accoglie tra l'inizio e la fine.
Non sempre però chi si unisce alle danze vuole davvero impegnarsi: magari lo fa per riempire del tempo, o solo per dire che c'era. Come chi risponde all'invito soltanto per garbo, saluta i suoi ospiti, beve un bicchiere e volge le spalle alla sala.

Ai conviti c'è poi chi ama l'eccesso, agitandosi e facendo rumore per farsi notare, o solo perché non sa regolarsi, non sa contenere i suoi umori, e le emozioni che gli si agitano dentro. I timidi si uniscono ad altri per sembrare più grossi; mentre individui dallo sguardo annoiato si trattengono in prossimità dell'esterno, pronti a fuggire non appena se ne dia l'occasione. Ci sono i tipi brillanti, gli eroi, coloro che sanno sedurre con movenze leziose; chi domina attraverso silenzi, e chi si sa infervorare elogiando praticamente se stesso...

Alcuni ci sono, ed altri sono lì nei paraggi. Con alcuni mi sfioro, con altri incrocio il mio braccio... Molti, però, non riesco proprio a vederli.
E' una festa, e quello che accade è reale e fa storia: la mia e la storia di tutti.

Le parole, come quei cubi di legno che assemblavo quando ero bambina: a seconda di come li accostavo tra loro realizzavo disegni e davo forma alle idee. Giocavo con essi per colmare l'inquietante e fastidioso silenzio, per celare pensieri, o per dare loro sostanza. 

Oggi mi interessa la prassi: ho a cuore il fare provocato dal dire - i giochi e gli scherzi fanno parte della stessa famiglia.
Quindi, se mi soffermo a guardare negli occhi qualcuno, a dedicarvi il mio tempo con quesiti, risposte e provocazioni, non lo faccio per caso, e non lo faccio per niente.  Mi aspetto che l'altro comprenda e si comporti alla stessa maniera: il pensiero che danza, nel suo gioco di suoni e di forme, sospinto e accresciuto attraverso i vari passaggi, che arricchiscono infine chi lo segue e ne ha cura. 

Cosí costruiamo l'amicizia del fare.

Talora, purtroppo, l'immediata adesione si muta in rapida sosta: un'affacciata al balcone, un viso che si volta a guardarsi d'intorno per brevi, brevissimi istanti.
Che vada.

Ma se il suo viso si atteggia ad ascolto sincero, se cerca quel vino con avida foga, non lo getti nel vento, ricusandone il suono che gli vibra nel cuore: se lo ignora tradisce se stesso, e le parole versate si rovesciano oltre, rovinando nell'aria e nel vento.
 Non lasciamo che si infranga lo specchio, perché niente tornerà come prima.

La vita non riavvolge se stessa: essa incede, ogni volta dalla mossa appena compiuta.
Se non osi avanzare rinunci al presente già tuo che è solo da fare!

La vecchia familiare sirena gioca sempre l'inganno, ma non lasciamo che riesca a sedurci, e continuiamo a viaggiare per terra e per mare, tra i flutti impietosi ed aspre montagne. 
Insistendo potremmo raggiungere verdi radure, popolate da genti felici...





















venerdì 17 marzo 2017

"GUAZZA, ANTIGUAZZA, E SGUAZZATURA"



Un amico risponde ad una mia domanda, chiarisce una dinamica in essere, e poi mi invita a scrivere un post. 

Posso forse esimermi?

 Non sarebbe rispettoso nei confronti del suo impegno dimostrato, del suo interessamento, e della voglia che ho di giocare. 

Quindi, amico provocatore, questo post è qui grazie a te.

Io sono nata a Roma, una città promiscua, ricca di vicoli e di scorci interessanti: geografici, psicologici e linguistici.

Chi legge ciò che scrivo lo sa bene che osservo sempre con grande attenzione il modo in cui le persone usano il linguaggio. Il presupposto da cui muovo non cambia: ogni lingua esprime un mondo, una visione del mondo, il modo in cui chi la utilizza si relaziona a ciò e a chi gli è d'intorno.

 Se ci scomodiamo a forgiare espressioni per indicare un concetto, una relazione di azioni, o semplici oggetti, ciò non avviene per caso né per noia, ma perché riteniamo quei "contenuti" di una qualche importanza... Una lingua, direbbe qualcuno, esprime una visione del mondo, una Weltanshauung
E come negarlo?

E così alle lingue comuni si affiancano i variopinti dialetti, dall'andamento diverso e non sempre gradito... Come ornamenti vivaci, e a volte un po' grevi, su una veste ben fatta. 

Nella mia città ormai il dialetto è quasi scomparso. É presente nei libri di scuola, per merito di grandi poeti a tutti ben noti. Ma per ascoltare le sagaci espressioni romane, al di là di certe vecchie taverne, bisogna che si vada in quei vicoli, con lo sguardo e le orecchie ben ricettivi. 

Soprattutto in estate, quando mi rimane possibile, amo uscire di casa al mattino, in orario leggero, e camminare per ore, con il naso all' insú (ma anche di lato), in un libero andare per le strade roventi della storica urbe. 

Tutti i miei sensi in ascolto, accolgo i suoni e gli odori, regalando a me stessa un tempo privato, e vago tra gli altri, che siano i numerosi turisti accaldati, passanti d'occasione, o normali residenti nostrani. 

Cammino tra loro, silenziosa e curiosa, ogni tanto una tappa per rinfrescare la testa sotto il fresco zampillo di un vecchio nasone
Sempre più rari, purtroppo. 

E così vado avanti: sandali ai piedi, scoppoletta indossata al contrario sul capo, il sole sul volto e i capelli bagnati di fresco.

Incontro così finalmente la grande città, con le sue piccole piazze, guizzanti fontane, sontuosi e antichi palazzi, e le chiese, ornate coi marmi di vari colori e piene di quadri e di storia, che è dipinta sui muri, nei musei, e tra la gente, per strada...

Gli odori che cambiano, spostati da piccole brezze, tra lame di luce accecanti che sbucano un po' qua e un po' la, dietro gli angoli degli antichi palazzi. Lo sfarzo, i giardini, e i resti infiniti di antiche vestigia. Cocci, come li ho definiti volta.... Antichi e famosi, ma semplici cocci. 
Roma ne è piena.

Nel web ho trovato notizie, leggende, usi e abitudini: qualcuno riporta canzoni, modi di dire e di fare... Se cerchi, puoi trovare una storia per ogni vicolo scuro che costeggia i palazzi. Feste ed eventi, passaggi importanti e credenze, in un mondo che ancora rimane, non visto, come sacra memoria dei luoghi.

 Ed è strano osservare così tante persone che calpestano il suolo, dopo tutto quel tempo, dove tanti altri sono vissuti, hanno cantato e lottato, impegnati nella banalità di azioni comuni. 

Ed io che sto lì, ad unire i punti di un gioco, tra presente e passato, memorie e leggende, nel mio attuale e curioso presente. 

Osservo, annuso, ascolto...Un passo alla volta, sotto lo sguardo attento di rapaci gabbiani che si sollevano in volo dalla superficie del fiume per riscendervi giù, un poco più avanti, li dove l'arco del ponte regala loro una larga macchia di ombra.

Il sole nell'aria e un senso fresco di libertà.

La lingua, dicevo, il dialetto, e la gente del luogo che si rivolge a chi incontra.
Espressioni di un comune sentire e di un comune vedere, di un modo che rende a volte compari.

Dare la guazza: una delle tante espressioni romane, un modo un po' immaginifico per illustrare un concetto, per indicare un sistema discreto di raggiungere un certo obbiettivo.

A Roma la guazza è la brina, che si sofferma brillante sull'erba al mattino. Chi vi passa attraverso la raccoglie senza nemmeno avvedersene, e se la porta addosso ignorata.

Col tempo quell'acqua avrà vinto, dopo che, lentamente, avrà conquistato la stoffa ed intriso le vesti e i calzari.

Ma questo dove ci porta? Ad un sistema un po' furbo che alcuni mettono in atto per raggiungere il proprio obbiettivo. Lentamente si lavora nell'ombra, operando l'inganno non visti, intanto che la vittima ingenua si lascia distrarre da altro. 

Il meccanismo è perverso, perché silenzioso e graduale... Un lavorio ben ben misurato che porterà il risultato a sorpresa, inatteso, ma in modo davvero efficace.

E quindi noi diamo la guazza a qualcuno nel dirgli che si, è proprio così che stanno andando le cose, secondo quel modo che a lui piace proprio pensare... Diciamo di andare al suo passo, ma stiamo muovendo altrimenti.

Una buona difesa da mettere in atto è perciò l'antiguazza... 
E questa, direte, che d'é?? 

Un semplice antidoto, che richiede altrettanto lavoro discreto, ma astuzia maggiore. Un gioco di fino che accoglie la guazza che l'altro ci dona con lo scopo di rendere la stessa medesima giostra a chi ha avuto la prima intenzione. 

Tu mi sorridi ed io sorrido al sorriso studiato che tu mi hai donato soltanto coi gesti. Il mio cuore è ben desto però, e così la mia mente, e come se fossi uno specchio, rimando al mittente quel gioco perverso.

Il contravveleno è un guazzabuglio al quadrato: il gioco che gioca colui che vuole giocarmi.

E dunque, a tal punto cos'altro rimane? 

Tra guazza e antiguazza, nel gioco sottile, chi vince e chi perde: chi sta nella guazza e chi invece si gode la sguazzatura finale.  










domenica 5 marzo 2017

FACCIA DI CLOWN



Attraversavo a passo veloce l'arietta frizzante del mattino, godendomi quella bella luce che solo il primissimo sole primaverile sa restituire. L'occhio é caduto sul muro che si avvicinava, veloce, al mio viso. Un poster, un pò strappato e un pò logorato dalle intemperie, ha pizzicato la mia mente, attraverso la semplicità apparente dell'immagine che riportava.

Tanto che mi sono detta: voglio scriverci su qualche cosa.

Ho preso il mio smartphone, una ditata al display, ho inquadrato e immortalato quell'immagine, rimandando ad un altro momento l'esplorazione di quanto mi si veniva a raccogliere nei pensieri.

Un muro sporco in una città vecchia, in un quartiere periferico: rumori del traffico e l'odore dei gas di scarico delle auto. Vicino, l'insegna di un bar e tre tavolini di plastica dal colore rosso vivo. Qualche persona seduta davanti ai caffè, sigarette tra le dita: un normalissimo lunedì mattina, mentre il suono dei tacchi larghi sulla strada accompagnava la mia corsa.

E poi quel cartello. Un fermo immagine.

 Nessun rumore, solo quella testa di orribile clown che emerge da sotto la maschera umana di chi la indossa. 
Un brivido.
Nemmeno faccio caso allo slogan scritto più in basso, che polemizza con alcune iniziative del governo.

Un clown: continuo a vederlo anche dopo, mentre corpi di ogni misura mi si poggiano contro, in quel vagone che scorre nei sotterranei della città in cui lavoro.
Mi soffermo sui particolari: cos'é che inquieta del volto di un clown? E' una figura inventata, nota per il buon umore che dispensa tra la gente - anche se a me ha sempre trasmesso tristezza, sin da quando ero bambina. 

Il gioco forzato non mi ha mai affascinato, la simpatia a tutti i costi, le finte disgrazie, i movimenti goffi, quei vestiti enormi... Troppo teatrale, troppo alterato... Che piacere può dare una cosa così?

Il volto di un clown é dipinto di bianco, reca lineamenti ingranditi, ed espressioni forzate.
Un trucco pesante, sotto ogni punto di vista.

Le labbra enormi e rosse, visibilmente dipinte sul volto; gli occhi cerchiati, che sembrano essere enormi, e quella pallina orrenda posizionata sulla punta del naso.

Un clown é una finzione totale, costruita per intrattenere e distrarre, ma lo fa in modo grottesco, perché, intanto, fa mostra di quel paradosso che gli é sostanziale.

Eccolo: é questo ciò che m’inquieta.

Mi spiego: non si tratta qui di un pupazzo costruito in modo da apparire simpatico e buffo; qui abbiamo un uomo reale, in carne ed ossa, mascherato da pupazzo che vuol essere simpatico e divertente.

Abbiamo un uomo che deve fare il pupazzo, e per farlo esibisce un sorriso smodato, visibilmente fasullo, dipinto su un volto che ha perso - pur continuando a mostrarla - la sua natura reale.

Il rigidismo forzato di espressioni ostentate, dipinte, incorniciate da variopinti capelli posticci su dei modi estranianti si scontra con quanto sappiamo degli esseri umani: variabilità di umori e di gesti. 

Una marionetta, quindi, rappresentata da chi, per natura, marionetta non é. 

L'obbiettivo: mentire e distrarre, perché il tempo di chi assiste allo show trascorra tranquillo, senza che alcuno sollevi pretese o faccia alcunché.

Il manifesto di cui in apertura ostentava l'inganno, mostrandone la natura potente nel suo più inquietante backstage: un uomo ci mostra il suo viso, che é un viso da clown. Il sorriso che invade la parte inferiore del volto, l'espressione ferina degli occhi, opportunamente camuffati in un trucco espansivo. 

Ma in fondo ci mostra di più: chi fa mostra di sé nella verità di una natura violata, rivela in essa il suo modo: la faccia di clown é quanto rimane evidente sotto alla maschera prima ch'egli sta togliendo dal viso: la sua mano, nel gesto di espellere una copertura fasulla dal volto, sta togliendo ciò che ha le fattezze di un volto umano.

Il messaggio é glaciale: la mia natura non é quella che vedi, il mio essere "umano" è soltanto finzione, che inganna e tradisce la reale natura di chi mi crede per tale. Sotto la reale finzione - la prima maschera, quella dalle umane fattezze - soggiorna la vera realtà: anch'essa una maschera, ma dallo scopo ufficialmente ben noto - questa sì, riconoscibile.

Non abbiamo quindi davanti né un uomo né un burattino: abbiamo davanti l'inganno assoluto, che agisce nelle sembianze di un uomo, ma come un pupazzo, messo su per distrarre e illuderere quelli che invece, sono esseri umani. 

Un pupazzo che prima, per sua natura, era un uomo.

L'operazione esibita di colui che toglie la maschera rivela pertanto una ulteriore finzione, perché, alla fin fine, sempre una maschera resta, il cui ghigno beffardo guarda verso di noi.

Un gioco perverso cui molti individui si cimentano in pieno: mi burlo di te, ma rimango io stesso costretto dietro una faccia di clown.

Sempre, poi, che si avveda di starla indossando...