Il Mio Blog non vuole essere un monologo, ma un invito all'incontro: pertanto sono graditi i commenti e il succedersi degli scambi che ne conseguono.
Buona lettura!

mercoledì 21 settembre 2016

C'è da fare



Lunedì lunedì ahi.
Martedì non filai.
Mercoledì persi la rocca.
Giovedì la ritrovai.
Venerdì mi lavai la testa.
Sabato andai al mercato
la Domenica non lavorai perché era festa.


Questa vecchia filastrocca è esemplificativa di come il classico perdigiorno conduce la propria settimana.
Si comincia di lunedì, con molta calma... D'altronde è solo lunedì... Poi toccherebbe iniziare a lavorare, ma ancora per un giorno si prende tempo: bisogna pur carburare, no??
 Poi capita qualcosa, un problemino, come potrebbe esserlo non avere a disposizione tutto ciò che serve per fare il proprio... Quindi, ancora niente.
Ci vuole il tempo necessario per riorganizzarsi, almeno un giorno, tra trippole e trappole, e siccome intanto si avvicina il fine settimana... E' necessario iniziare a curare il proprio aspetto al fine di rendersi presentabili. 
 Tocca poi dedicare spazio e tempo alla vita pubblica... Ed, infine, al riposo settimanale.

Vita da pigri e da inconcludenti. Azioni finalizzate a non fare, che si autoleggittimano nella propria inconsistenza.

Di persone così se ne incontrano facilmente, basta osservare ed ascoltare la profusione di parole emesse a mò di giustificazione - solitamente non richiesta -  per le suddette non-azioni.
E la non-fatica prodotta da queste non-azioni ricade su chi ascolta sotto forma di rabbia, di sarcasmo o, nel caso si trattasse di persone frequentemente intercettate, di faticosissima sopportazione.

Solitamente le persone inattive sono annoiate e noiose, non hanno di che impegnarsi, né di che ragionare, quindi non fanno altro che lamentarsi, oltre a ripetersi, ripetersi allo sfinimento (di chi ascolta, prevalentemente).
Si perché, in fondo, chi non utilizza il tempo si trova a doverlo riempire, proprio perché altrimenti non saprebbe che farne.

E così comincia il disco. 

Quella che ho qui indicato come non-azione, cioè quel fare  privo di sostanza e di obiettivi, è l'equivalente dell'azione fatta a vuoto.  

Il leggendario Sisifo saliva su per un monte portando con sé un grosso masso, e  quando raggiungeva faticosamente  la sommità, ecco che il masso cadeva giù, così che lui doveva nuovamente portarlo in cima. In un infinito e terribile circuito di inutilità, e di energie sprecate. 
Si dice che Sisifo fosse stato in vita un personaggio assai sagace, e che attraverso mille astuzie avesse talmente infastidito gli dei - aveva sempre la meglio anche su di loro - che, infine, Zeus lo punì col suddetto contrappasso.
Tanta intelligenza destinata ad essere sprecata per l'eternità. 

E questo è ciò che spesso capita ad alcuni di noi: buttiamo via le nostre risorse reiterando azioni inutili, e insistiamo, insistiamo, per un tempo che sembra non possa interrompersi mai. 

Ne segue una certa insoddisfazione, che presto diviene frustrazione, fino ad assumere i toni accesi della rabbia. 
Ma noi continuiamo, senza nemmeno avvedercene, a caricarci quel faticoso masso per portarlo in alto, e poi a buttarlo giù.
E intanto che soffriamo, tra gemiti e imprecazioni, stiamo già di nuovo scendendo la china per andarlo a riprendere...

Lunedì, lunedì ahi....

Espressioni riportate anche dalle canzoni più popolari, che ribadiscono quanto sia comunemente detestato il lunedì, al pari di quegli occhi gonfi di sonno e delle espressioni aggravate di chi mi capita spesso di incontrare al lavoro nel primo giorno della settimana. 

Di martedì il ritornello cambia solo nella forma, per riproporre l'identico concetto: quello per cui "è solo martedì e già si avverte tutto questo peso!".
Di mercoledì prende inizio il conto alla rovescia: le persone si consolano a vicenda nei corridoi ricordandosi le une con le altre che, fortunatamente, mancano solo due giorni al sabato - sospirato giorno di riposo.
  E infatti, nel penultimo giorno, il ritmo rallenta ovunque, fino a ridursi ai minimi termini nella giornata di venerdì. 
A quel punto il pensiero è già assorbito dal fine settimana. 

La domenica non lavorai perché era festa.

C'è un'altra forma di Ignavia, o di spreco, se vogliamo. Quella che può capitare a chi si sforza lungo tutto l'arco della settimana, di produrre qualcosa di utile, di fare qualcosa che possa aver significato per molti, oltre che per sé stessi.

... Tanto impegno e sacrificio e poi accade qualcosa, un vizio, sempre la stessa sciocca operazione, fatta di certo in buona fede, che però finisce col vanificare tutto quanto, riportando il Titano alla detestabile e compassionevole situazione di Sisifo.
E allora vai, di nuovo in cammino verso quel burrone, a spingere e spostare il gravoso masso.

Cos'è accaduto?

La routine, l'abitudine, scaricare il serbatoio del prezioso carburante, faticosamente e degnamente guadagnato, in cose da poco conto, inutili e quindi dannose.

Buttare via la propria primogenitura per il famoso quanto misero piatto di lenticchie.

È il fine settimana, ho lavorato tanto, ho avuto i miei successi, e anziché godermi il meritato riposo e l'ancora più meritato festeggiamento vado a trovare i parenti, che sennò ci restano male. Si offendono.
  Vorrei starmene tranquillo per conto mio, ma gli amici poi mi criticano, accusandomi di essere asociale, e quindi esco.
C'è la partita, e anche se oggi ho bisogno di riposo, mi tocca andare a vederla a casa dell'amico o dell'amica, che magari ha preparato il pranzo apposta e, se non vado, finisce che si risente...
 E poi, magari, ci sono i suoceri, e un fine settimana si e uno no mi tocca andare, sennò poi chi li sente...

Cose così, insomma. Azioni neutre di per sè, ma che, osservate in relazione alla situazione, posson andare contro i miei effettivi interessi, o contro le mie imminenti necessità. 

E allora consumo più energia di quanto normalmente ne servirebbe, e finisce che vado in debito. 
Meglio restare a credito, no?

Nel gergo di alcune scuole di psicologia questa modalità di comportamento è definita come "ciclo 8", ad indicare che ci si dà tanto da fare per tutta la settimana per poi cadere proprio nel giorno di riposo. 
  Giorno in cui, anziché raccogliere i frutti del proprio operato, li si butta via scioccamente, obbligando se stessi a ricominciare tutto da capo.

Altri definiscono la suddetta modalità in maniera più formale, indicandola  come "riattivazione delle resistenze".
Ciò che in ambito informatico e' descritto come "loop".

A me viene in mente la tragicomica novella dei carcerati in fuga i quali, scavalcato il novantanovesimo cancello che li separa dalla libertà, si fermano davanti all'ultimo e tornano indietro, perché si sentono stanchi.
Un vero peccato, no?

Quindi: non fare, fare cose inutili, fare cose utili e buttare via tutto per motivi non funzionali.

Lasciarsi dondolare nell'aria, poggiati sul sedile di un'altalena. Una spinta e poi avanti e indietro, ipnoticamente avanti e indietro...E cigola quella catena...


Così accade che mi trovo davanti una persona che conosco, una delle tante. Si presenta bene, lavora seriamente, rimane fino a tardi in ufficio, adempie ai suoi doveri di figlia nel fine settimana, fa sport e si lascia coinvolgere da qualche gossip. È intelligente e si dà da fare. Vorrebbe fare tante cose ma non le fa perché è sempre troppo stanca, e non le rimane mai il tempo...


Fa tanti sogni, ma non li ricorda mai: preferisce lasciarli nel cassetto.


Io le parlo e mi risponde un circuito operativo, razionale,  corretto...Tutto giusto, tutto a posto. Eppure qualcosa non va: si tratta della persona. 


Io non la trovo.














venerdì 16 settembre 2016

Veleni aleatori



Sono distesa sul letto, nella semioscurità della notte, nel piccolo appartamento silente. Sonnecchio, fluttuando tra le onde di un mare tiepido e calmo, rilassata in un tepore accogliente.
 Percepisco, attenta, le variazioni d'intorno, e da lontano, da molto lontano, avverto un rumore crescente, estraneo e gracchiante. In breve si muta in un frastuono corale che cresce, e fa pensare ad un grosso aratro meccanico in moto.

Lo so, lo conosco, l'ho già sentito.

Lo riconosco di colpo, e immediato scatta il mio corpo: sono in piedi, le palpebre ancora incollate dal sonno. Chiudo con foga i vetri della finestra, e poi corro in bagno per fare lo stesso, e poi ancora in cucina. 
Il tappeto di cotone mi carezza la pianta dei piedi: e' gentile ed amico nella frenesia del momento; il cuore mi scoppia nel petto, sembra il solo sovrano di un corpo appena riscosso dal tranquillo ristoro.

Dal vetro lo vedo: il mostro su ruote, che spara attraverso un cannone il fluido veleno che impedirà alle odiose zanzare di riprodursi nei prossimi giorni.
Al contempo, però, farà secchi i piccoli gechi dai moti vivaci e scattanti. E tutta la festa animata che popola i nostri vialetti: siano lunghe ed eleganti lucertole verdi, o lente chiocciole scure, che spuntano ovunque tra foglie e cespugli.

il rumore diventa assordante, invadendo tutto lo spazio che può, trapanando fin dentro le orecchie, intanto che luci rosse ed arancio si alternano con foga pressante.

Sembra una zona di guerra. 

Non sono stata abbastanza veloce, e un pò del brutto veleno è finito qui in casa, col suo aroma metallico e amaro.
Veleno nella mia piccola casa e nell'aria che ora respiro. 

Me ne torno finalmente sul letto, in attesa che il rumoroso assassino finisca il suo giro: il prato nel retro, gli spazi fioriti intorno alle case e poi, finalmente, il cancello dal quale è venuto. Fuori, nelle anonime vie della nostra città.

Attendo in ascolto, finché il frastuono non passa, e con esso la nuvola opaca di morte. Ancora un minuto perché possa riaprire i vetri sbarrati e consentire alla fresca arietta notturna di carezzare il mio volto, coi suoi odori ricchi di pollini ed erbe.

Il cielo è striato e la luna mi osserva, alta lassù tra le nuvole.
 
Veleni arrogantemente versati su tutto, inopportuna espressione di un fare gretto e violento. Di un fare che non prevede un pensare.

Veleni fortunatamente aleatori: efficaci soltanto finché la pioggia non farà la sua scesa.

Veleni inutilmente versati.

La notte appena trascorsa ripete gli eventi del giorno che l'ha preceduta, e l'odierna mattina presenta quanto già nell'altro contesto si stava apprestando.

Sorseggio il caffè, la tenda tirata a svelare il mondo di fuori: osservo l'abito  plumbeo di un cielo impietoso. 
Pioverà.
  L'affronto e lo sfregio notturno saranno annientati, e con essi quelli del giorno che l'han preceduti.

L'acqua arriva dall'alto, in mille aghi pungenti; lo scroscio purifica il suolo e lava gli oltraggi.

E' veloce e potente, e mi rende il sorriso: la nuova giornata ha già avuto il suo esordio.








domenica 11 settembre 2016

Lo spettacolo in Tivù


Sono a casa di un amico, e mentre una lucida fetta di torta alle more soddisfa la mia gola, lo osservo imprecare, totalmente assorbito nello sforzo di installare il nuovo decoder che non vuole attivarsi.
La scena mi strappa un sorriso: il mio amico, la tivu', non la guarda mai! Lui è  un internauta Doc... Usa solo il PC connesso alla rete...
 
Sto parlando di un amante della tecnologia, dotato di ostinazione e pazienza come pochi altri (nessuno comunque che io abbia mai conosciuto), e quando trova un intoppo riversa tutto il suo potenziale in quel nodo, fintanto che la questione non sia risolta. Lui è  capace di lavorare per ore senza nemmeno una sosta; in quei momenti, com'e' giusto che sia, non ha occhi né orecchie per nessuno.
Ed io non resisto: lo stuzzico con domande alle quali risponde veloce, ma in modo sconnesso: e' gentile ma vuol togliermisi di torno il prima possibile.
 
Lo frequento da anni e di scene così ne ho già viste accadere. Quindi, insensibile al depistaggio dei grugniti e delle espressioni rassegnate che appesantiscono l'aria, invadendola, assisto all'Evento.
Lo schermo rimanda finalmente nitide immagini dai colori sgargianti e, al contempo, la schiera di piccoli altoparlanti distribuiti  sulle quattro pareti - "sette più uno" con effetto surround, non so se mi spiego! - accende la memoria di eventi accaduti alla mia persona in giovane età, attraverso l'emissione di note vivaci di musica già conosciuta.
 
L'attenzione si sposta sul video, e riconosco due artisti che ho sempre molto apprezzato: Zucchero Fornaciari e Francesco De Gregori.  

Sorrido di piacere e poi scoppio in allegra risata. Accade: la tivu', lo spettacolo, gli artisti... Impalcature messe su ad uso e consumo di un pubblico reale, ma anche un poco fittizio. Regole implicite segnano un copione prevedibile e falsamente improvvisato. 
Atteggiamenti di finta sorpresa, ammiccamenti a comuni equivoche epressioni, doppi sensi non proprio celati e abbigliamento fintamente d'occasione. Canticchio il motivo familiare e riconosco che costituisce il solo originale elemento  della trasmissione. Anche rispetto agli artisti, che si atteggiano sul palco con mosse studiate e arcinote, sotto agli stessi vistosi cappelli che portano in testa da oltre vent'anni.
 
Le zoommate sui volti rivelano, impietose, segni di chirurgia estetica, i cui esiti- seppure piuttosto ben riusciti - limitano l'espressivita' dello sguardo e del sorriso, snaturando la persona e danneggiando il mito che gli è connesso.
Non sono più  loro, anche se li si vuol riproporre cosi com'erano allora.
 
Il tempo scorre. Per tutti e per tutto.Tranne che per certa musica, e per le immagini che vi si sono aggrappate, presentandosi immediate al pensiero, come fissate alle note dal velcro.
Ma tutto in tivu' deve apparire piu' fresco, giovane e liscio, anche al prezzo di mostrare coloro che un tempo son stati leggenda in modo piuttosto farsesco.  
 
Non riesco a non ridere osservando i vari strati di trucco e gli zigomi tirati a rendere lucida la pelle, le sopracciglia scolpite, depilate col bisturi e letteralmente disegnate sul volto, e la pelle raggrinzita del collo, che trema danzando al ritmo di musica.
 
Pause tra un brano ed un altro, il via vai di artisti che si alternano tra un dialogo e una performance. E un po' qui e un po' la' si dedica spazio a brevissimi dialoghi, la cui sintassi è descritta da ammiccanti espressioni, così esasperate che di naturale non hanno granché: parodia di se stessi, in piena coerenza con quanto accade davvero.
E poi le battute sul sesso, dai contenuti piu o meno espliciti, nel pieno rispetto del piu' falso senso del comune pudore.
 
Niente di nuovo sotto il sole, ne' dentro lo schermo, ovviamente.
Sorrido.
 
Muovo i piedi e le dita a ritmo di musica; parole testimoni di una parte della mia gioventù fuoriescono a ritmo, spontanee, dalle mie labbra.
 
Sorrido davanti allo show: scomposto nella sua sostanza, ma regolare nella sua essenza.
Obbiettivo raggiunto: divertimento integrale.
 
 
 


venerdì 9 settembre 2016

La varietà


Accade che mi reco al mulino del paese, una piccola struttura che poco ha a che vedere con gli storici mulini scenografici dell'immaginario comune. È una grossa sala che ospita enormi macchinari che, rumorosamente,  macinano i grani e ne separano le parti, che vengono poi riversate a fiumi in appositi canali. 
Intorno, numerosi sacchi di prodotto e mucchi di crusca.

Il mugnaio non è  l'ometto barbuto tutto infarinato delle favole, ma un signore di una certa età che fa il commerciante, e in quella stanza preme bottoni, dispone i sacchi di varia misura, e soddisfa gli ordini dei clienti. Le sue origini sono pugliesi, lo si coglie dalla parlata stretta, e il suo sguardo è  vispo.

Ha lavorato la terra per anni, e ogni volta che lo incontro mi regala aneddoti del suo passato, ed elargisce suggerimenti su come riconoscere la bontà dei prodotti che acquisto. Mi racconta che "l'olio buono" in inverno, con il freddo,solidifica nella bottiglia - cosa che non avviene con i prodotti commerciali, la cui qualità è  scarsa come il prezzo che ne identifica il valore.
 Lo stesso per il miele, che cristallizza con il tempo, diventando un unico blocco duro. Da lui trovo miele prodotto in zone selvatiche di montagna, dove prevalgono erbe e piante da nomi irricordabili che, però, determinano aromi memorabilissimi.
E poi i legumi e i semi. 

In disparte, nel negozio, in una zona in penombra, ci sono vari sacchi di tela grezza, ognuno col suo cucchiaio: sono pieni di fagioli, lenticchie, fave, farro, piselli... Piccoli oggetti dalle sagome stondate e multicolori. Devono stare al buio e lontani dal rumore, mi dice, devono riposare tranquilli. Mi racconta che i legumi preincartati, quelli in vendita nel supermercato, sono spesso molto vecchi e di seconda scelta. Questi, lo ammetto, hanno davvero un aspetto migliore, e si possono trovare solo nella stagione corrispondente. 
Per il farro dovrò aspettare ottobre...

Così, con una manciata di euro e con il sorriso nel cuore mi porto a casa un po' di scorte, e tanti bei sacchetti di farina: quella di farro, quella di mais, la farina integrale e un po' di grano tenero, che mi serve per tagliarle: ogni farina ha infatti i suoi capricci e una propria sensibilità, e va gestita con cura. 

La farina di mais è  ruvida, sono microcristalli variegati che poco si aggregano tra loro. Il colore giallo del suo oro nasconde la freddezza di struttura, poco incline all'integrazione e alla sua trasformazione. Nonostante il supporto dei lieviti, appositamente miscelati per aiutarla a superare la timidezza iniziale, questa aumenta poco di volume. Rimane lì, sul fondo della ciotola che la ospita, pesante e scura.
Va allora accompagnata con la farina bianca, dal carattere docile e collaborativo che, pazientemente, contribuisce all'evoluzione del processo. 
Tocca poi maneggiarla più volte  per garantire che la promiscuità divenga effettiva collaborazione.
Quello che ne deriva, infine, è un impasto gonfio e morbido, dal colore e dal profumo accattivante.
Ma da sola, niente: non si smuove.

Il farro ha invece carattere opposto: si aggrappa a tutto, appiccicoso come è, e richiede grandi attenzioni. È  leggero e inconsistente, bisognoso di supporto. Anche qui la pallida collega, dolcemente, lo accoglie tra le sue polveri e lo stabilizza. E più si dà e più è richiesta; sembra non bastare mai. Le mani, mentre impastano, vengono trattenute quasi a forza da quel corpo molle e un po' bruno, assetato di tutto: acqua e farina, e ancora farina e massaggi...

Poi c'è  la farina integrale, quella vera, originaria ed autentica. Il suo colore e' un po' grigio, picchiettato qua e là da punti scuri. Ma l'esposizione al calore del forno, a processo ultimato, ne evidenzierà poi un aspetto accattivante e brunito.
L'impasto relativo è di una stabilità interessante, ben fermo e compatto, rustico, ma fragrante e profumato. Niente a che vedere con quei prodotti miseramente cartonati che si possono acquistare a buon prezzo un po' dovunque, etichettati con il termine "integrale".

Acqua, un po' di zucchero, e lievito: aggiungo solo questo alla farina prescelta, ospitandola  in una terrina affinché gli elementi convenuti, sapientemente smaneggiati, interagiscano in maniera efficace.

Un impasto equilibrato e correttamente cresciuto costituisce la base perfetta su cui lavorare. Da qui, dall'omogeneo prodotto di elementi scelti, la creatività operativa di chi vuole e sa fare può  sbizzarrirsi in mutevoli e gradevoli prodotti: pagnotte e grissini, focacce e e saccottini, snack dolci e salati...


Ora, c'e' da dire che anche gli esseri umani presentano una varietà di caratteri...






domenica 4 settembre 2016

... Svelamento...



Sul web, di questi tempi, circolano numerosi articoli e commenti sulla questione dell'abbigliamento delle donne islamiche. La polemica innescata dai provvedimenti adottati e poi ritrattati da alcuni comuni francesi nei confronti del burkini ha rimbalzato sui giornali on-line e sui blog di molti autori.
    
Ci sono stati scambi e riflessioni, citazioni e provocazioni... Il pensiero ha volteggiato su temi svariati: dai "tormentoni", assurti a importanti occasioni di riflessione, alla mancanza di rispetto nei confronti del genere femminile proprio delle religioni monoteistiche - ad eccezione, certo, del culto pastafariano, della cui goliardica esistenza sono così giunta a conoscenza - , alla violenza legittimata da autorita' indiscutibili (religiose o meno) propria di certe comunità giustificate, a loro volta, dal buonismo di un certo relativismo culturale, in linea con una diffusa e controversa interpretazione dell'idea di integrazione e inclusione delle culture.
 
Dai pettegolezzi alla valutazione dei costumi, insomma, fino a delicate riflessioni di tipo teologico e politico.
Tra le citazioni e i riferimenti ho incontrato il nome di Nawal El Saadawi, il nome di una donna di origine islamica, in Italia per lo più purtroppo sconosciuta, ma oggetto di studio in molti corsi di stimate università, e spesso ospite di simposi internazionali.

Nata in Egitto negli anni trenta, questa donna ha affrontato con fierezza il suo tempo e la società nella quale è cresciuta, criticando la cultura di un paese represso e repressivo, interferendo con le linee politiche operando dall'interno, scuotendo la coscienza e modificando il modo di vivere certe abitudini comportamentali. 
 
È  stata una delle poche donne nate e cresciute in un villaggio povero ad aver potuto frequentare l'università nell'Egitto degli anni 50 - lo racconta lei stessa - ad essere divenuta medico, e ad aver reso operativo un programma di medicina sociale, ossia di informazione preventiva di tipo sanitario basata sul presupposto di una visione olistica dell'esistenza dell'uomo.
 
Il suo motto: come la cultura non è  mai separata dalla politica - in quanto al modificarsi dell'una intervengono inevitabili cambiamenti anche nell'altra - così non può esserlo il corpo dal modo di vivere e di pensare: lo stato di salute del corpo rivela la condizione globale dell'uomo. 

Condizione che i farmaci non sono in grado di sanare.

Nonostante il carcere, l'isolamento, il controllo, la censura, le minacce e l'imposizione a rinunciare addirittura alla propria nazionalità, Nawal ha continuato ad illustrare alla gente le reali motivazioni delle rituali menomazioni genitali cui vengono sottoposte le donne (ma anche gli uomini, seppure in altro modo e in altre religioni), oltre alle terribili conseguenze fisiche e psicologiche che da esse derivano. 
 
Un attento studio dei testi sacri le ha permesso di testimoniare su come un programma politico violento e oscurantista si sia imposto usando la mancanza di istruzione e la strumentazione dell'autorita' del divino, a cui attribuire insegnamenti e precetti. 
Ha fatto comprendere con l'esempio personale che il velo imposto alle donne nella sua cultura di origine e' un velo imposto alla mente, mantenuto e promulgato con la violenza, dalla ignoranza e dalla paura.
 
Il supporto di autorità politiche internazionali nel corso dei vari processi cui è  stata sottoposta, le ha permesso di poter scoprire, con non poco stupore, di essere considerata un esempio importante in America, in Norvegia, in Gran Bretagna e in altri paesi occidentali nei quali i suoi stessi libri erano e sono tuttora oggetto di studio in aule universitarie. 
 
La prima femminista islamica, che si è  esposta per gridare al suo popolo e al mondo intero che i più grandi nemici dell'umanità sono l'ignoranza e la paura. 
Entrambe limitano l'azione e la sperimentazione, uccidendo la creatività e impedendo la sana dissidenza. Così l'autorita', la moralità e la paura rendono l'umano dipendente da una salvezza esterna, ricevibile e desiderabile, snaturandone la necessaria evoluzione esistenziale. 
 
E le religioni, in questo telaio, fanno da protagoniste: strumento perfetto per una strumentalizzazione politica.

Nulla salus extra ecclesiam, insomma, qualunque forma, colore o lingua assuma quel vessillo.