Il Mio Blog non vuole essere un monologo, ma un invito all'incontro: pertanto sono graditi i commenti e il succedersi degli scambi che ne conseguono.
Buona lettura!

venerdì 17 ottobre 2025

Asilo

 

 

C’è stato un tempo in cui sbarcavo il lunario impegnandomi in attività disparate. Ero una entusiasta studentessa universitaria che cercava di unire lavori intellettuali ad attività pratiche: avevo paura di finire come quei soggetti capaci solo di sfogliare libri e tenere in mano la penna. Dinamiche di un tempo perduto, ovviamente: internet non era ancora nelle case di tutti e i computer non erano proprio alla portata di molti…

Così, dato che la sottoscritta era l’ultima persona entrata nel giro, oltre che la più giovane, una società assicurativa mi affidò rappresentanza e vendita di contratti presso gli asili comunali della mia città - quelli più scomodi da raggiungere, ovviamente, situati nei confini del regno.

 Mi si aprì uno scenario sconcertante.

Già da allora mi occupavo di formazione, studiavo per entrare nelle Risorse Umane, mi occupavo dell’educazione di bambini e ragazzi, e scoprii, in quell’occasione, che nelle strutture pubbliche i nostri piccoli erano affidati a persone dalla scarsa cultura e dalla dubbia educazione. I bambini, individui delicati e fragili, un enorme potenziale da stimolare e curare...in mano a chi cercava solo una retribuzione a fine mese, senza ben capire realmente il contesto in cui operava.

Sono trascorsi anni da allora, e io sono ancora attiva in quell’ambito che reputo fondamentale per la realizzazione e il mantenimento di una società civile. E con cuore dolente mi tocca affermare che ad oggi questo settore continua a vivere nell’oscurità della ignoranza e della finta buona forma.

Nel tempo si sono susseguiti decreti legislativi contraddittori, che hanno portato a confondere l’assistenza sanitaria con la cultura pedagogica – gli operatori definiti tutti indistintamente EDUCATORI -, e l’infanzia è diventata un unico calderone che identificava neonati e bambini di età scolare, come se essere piccoli fosse un unico elemento distintivo rispetto al mondo adulto.

Sono poi emersi numerosi scandali legati a fatti di cronaca, a seguito di denunce di genitori ostinati, e alla messa in funzione di telecamere nascoste nelle strutture dedicate: molti cosiddetti educatori, in pieno esaurimento fisico e mentale, esercitavano il loro mestiere con i bambini a suon di botte, strattonate, urla e male parole.

Si è finalmente dovuta affrontare la questione della loro formazione professionale.  

Ed è diventato un po' più chiaro che la diffusa affermazione secondo cui “tanto sono piccoli, che altro vuoi fare se non intrattenerli e cambiare il pannolino?” era un po' troppo semplificativa…

 Decisori politici hanno quindi decretato ancora, disponendo la distinzione ufficiale tra prima (fascia di età 0-3 anni) e seconda infanzia (4-6 anni), tornando a separare il settore socio-sanitario - di orientamento clinico - da quello psicopedagogico a carattere educativo.

Si è infine stabilito che per operare con la prima infanzia fosse obbligatorio aver conseguito un titolo specifico del corso di laurea in scienze dell’educazione, con curriculum Prima infanzia. Gli altri percorsi aprono le porte a lavorare nelle comunità anche con adulti, con anziani, come animatori, nelle ludoteche e con extracomunitari. Le materie di studio spaziano dalla sociologia, alla psicologia, alla pedagogia e anche un po' all’area giuridica.

Per arrivare a questo abbiamo dovuto attendere l’anno 2020 (ieri l’altro, in poche parole).

Con un personale sversamento di bile faccio notare che il corso di studi universitario in scienze dell’educazione è nato solo negli anni 2000 e che, in precedenza, gli educatori hanno potuto operare con i bambini (sui bambini, mi correggo) avendo conseguito anche solo un titolo regionale della durata di un anno di studi basato sull’apprendimento di materie umanistiche.

Il percorso dedicato alla prima infanzia, però, poco si discosta da quello tradizionale, puntando sullo studio di alcuni moduli formativi dedicati alla fascia di età 0-3 che, a contarli, richiedono al massimo un anno di studi. Sono stati però inseriti laboratori obbligatori in presenza che insegnano ad operare in gruppo, ad affinare capacità di ascolto e di coinvolgimento, oltre che strumenti di mediazione e stimoli alla creatività dell’operatore oltre che del bambino. E qui, finalmente, possiamo tirare un respiro di sollievo, se non fosse che in alcuni atenei queste ore di attività vengono evitate aggirando facilmente le regole.

In molte università, purtroppo, il carattere commerciale finisce con il prevalere sulla missione formativa, e si cerca di venire incontro alle esigenze di chi dichiara di avere poco tempo disponibile da dedicare agli studi: viviamo in una società di clienti, purtroppo, in cui vige la legge del mercato.

Assistiamo così ad un curioso fenomeno di capovolgimento del senso comune: se un tempo si studiava, anche a costo di enormi sacrifici, per acquisire le competenze necessarie ad operare, oggi si cerca di conseguire titoli accademici attraverso l’adozione di scorciatoie e agevolazioni, perché il tempo da dedicare non può più essere tanto. Ormai l’obiettivo è divenuto il conseguimento del titolo, a scapito del percorso effettivo di formazione.

Nasce dunque, nella mente di genitori preoccupati e seriamente attenti allo sviluppo della propria prole, la ricerca di soluzioni alternative… Dove andare, come fare?

Negli ultimi anni si è parlato molto dei cosiddetti “asili nel bosco”, strutture educative che operano in maniera differente dal metodo classico cui siamo abituati: bimbi che trascorrono ore in ambienti chiusi, senza possibilità di correre e giocare a contatto con elementi naturali, spesso intrattenuti con l’ausilio di strumenti video non sempre proprio educativi…  E si, la televisione può essere un buono strumento formativo, come la storia ha dimostrato, ma non ne esaurisce le modalità.

 Così, sulla scia di quanto già accade da anni nell’area del nord Europa, anche il nostro paese ha visto fiorire qualche “asilo nel bosco”, scuole che rispettano nel bambino il suo essere naturale, individuo che necessita del contatto con la natura per il proprio benessere e per uno sviluppo rispettoso aperto alla comprensione di sé e dell’altro.

Ma il nostro paese si sa, riesce a far cadere ogni buon proposito con la complessità burocratica che lo caratterizza, e queste tipologie di scuole hanno dovuto far i conti con tante difficoltà, fino a chiudere o a mutare i propri obiettivi di fondo, trasformandosi infine in scuole di élite per sole persone dal reddito alto (sempre perché istruzione e formazione siano un diritto di tutti!).

Ora, io conosco due persone a me molto care, novelli genitori, altrettanto attenti a certi temi, che sono onestamente preoccupati per il futuro delle loro figliolette.  In questi primissimi anni si arrovellavano nella ricerca di una soluzione che potesse ritenersi dignitosa, fino a quando hanno deciso, e mi hanno inviato il programma dell’asilo gratuito da loro organizzato nelle aree aperte del paese in cui vivono.  Si tratta di un luogo interessante e per certi versi faticoso, un paese arroccato su una montagna, fatto di pietre e persone. Al suo interno non circolano macchine né trabiccoli a motore: si cammina e ci si inerpica su scalini fatti di pietre, a volte piuttosto erti, a volte scivolosi.

E così ha avuto inizio un’avventura che sembrava aprire molti quesiti, ma che si è rivelata una grande opportunità per tutti, sia grandi che piccini.

Il paese presenta aree giochi e giardinetti curati dagli abitanti, dove i bimbi si radunano la mattina con i volontari che, giocando, li istruiscono, li correggono, li aiutano a socializzare e a capire cosa significa vivere: stare con altri, a volte litigarci, imparare ad affrontare conflitti e capire il valore dell’amicizia.

Ci sono stata anche io, in questa novella scuola, e ho vissuto un’esperienza bella: finalmente ho sentito cosa significa vivere la comunità e il tanto millantato valore della famosa inclusione. Bimbi piccoli che imparano ad apprezzare gli altri, a conoscerli, a fidarsi, che si contrappongono, si imitano e si aiutano. Che a volte si escludono e poi si cercano, che ascoltano gli adulti coinvolti in attività divertenti che loro stessi, con la propria fantasia, contribuiscono a orientare. Non ci sono mura scolastiche a contenerli: sono benedetti dal sole e carezzati dal vento, si scaldano correndo tra i vicoli, correttamente protetti da indumenti idonei, ovviamente. La pioggia non fa paura, perché dona l’occasione ambita di poter schiacciare l’acqua delle pozzanghere con qualcun altro. Li ho visti suonare sulle ringhiere dei giardinetti con rametti secchi presi in terra, percuotere pezzi di legno tra loro e ballare al suono delle mani ritmicamente battute su superfici casuali, giocare con l’acqua delle fontanelle e con le foglie, mangiare tra una risata e l’altra le giuggiole generosamente offerte dall’alberello che sta in piazza, e rincorrersi per scaldarsi in una giornata fredda, inventando storie di lupi cattivi e pecorelle smarrite (ma furbette!).

Ho condiviso le risate e placato le lacrime, ammirando l’attenzione verso chi stava accanto, e godendo della delicatezza esercitata dagli stessi bimbi nei confronti di quelli più piccoli. Beh, qualche spintone non è mancato, ovviamente.

Alla giornata dedicata alla musica è seguita quella orientata alla lingua, arricchita dalla presenza di bambini provenienti da famiglie di nazionalità differenti.  La giornata rivolta alle foglie ha prodotto quadretti dai colori vivaci, composizioni allegre e gentili fatte solo di natura e creatività.

E così ogni giorno una nuova lezione, all’aperto, vivendo, gli uni con gli altri.

Mi ripeto che è così che si cresce, adulti e i bambini: insieme, con la voglia di star bene, in un contesto sano fatto di natura e movimento, fatto di musica vitale.


Un esempio per molti, cui si può solo essere grati.





giovedì 11 settembre 2025

SETTEMBRE

 

Cammini e poi cadi. Corri e ti fermi. Al limitare del bosco c’è un fiume, e l’argine è alto. Osservi ascoltando i rumori. Sembra che tutto sia fermo, ma ogni vivente fa il suo, visibile o meno.

Gli scarponi nel fango, le mani nell’acqua che è calda, e i pensieri vanno ad allagare la mente, vagando nell’aria, si specchiano nel liquido che gorgoglia tra i sassi, sotto ai salici ombrosi.

Non so più dove andare, ma vado. Gli amici cadono lasciando il grande silenzio che duole, che morde la pancia da dentro soffocando il respiro. Soggiungono voci e altre dita si stringono alle mie.

 Scavalco pezzi di legno lisciati dall’acqua, sono sbiaditi.

Da anni trascino i miei passi su questa rena, da anni sono qui con il cuore. Qui sono cresciuta e qui morirò: quanto di più mi conforta.

 Io sono questo luogo che mi accoglie facendomi sentire viva nella mia solitudine.

I pensieri, agili compagni di viaggio, slittano scivolosi sull’acqua e nella luce di questa ulteriore giornata. L’aria è fresca e profuma di erbe: la menta e il timo serpillo più in là, tra le rocce.


 Il grigio della roccia antica nel verde scuro degli alberi richiama come un urlo la mia attenzione: percepisco la  forza, vorrei averla anche io.








lunedì 4 agosto 2025

Anime

  

 

Corro, salto e danzo. Forse sto solo fuggendo, ancora, o forse no. Magari sto tornando, e inciampo qua e là per la fretta che divora dentro. La voglia di liberarmi o di ritrovare quanto un tempo era mio, o che tale credevo.

 Ma il paesaggio è cambiato, lo riconosco a fatica: illuminato ormai da un cielo diverso e da un sole un po' caldo e un po' freddo. Mai così caldo, però se il ricordo è verace...

Ascolto solo i miei passi, un po’ lievi e un po’ pesanti, nel mio vagare forzoso e sorpreso, l’orecchio teso e l’occhio socchiuso. Non ci sono paure, cos’altro potrebbe ancora ferirmi?  Con me un grande tesoro, dietro ci sta tanto futuro, cui vado incontro con animo lieve.

Sono qui, mi dico, sono sempre qui. Dovrei dire piuttosto: ci sono.

 Ho dedicato del tempo alle vecchie voci, anche alle mie. Alle parole gentili e a quelle voraci, e mentre cammino sul ruvido tappeto terreno dai molti colori, indago inquiete emozioni. Mi ripeto soltanto che non posso più perdere nulla: è triste ed è bello. 

Forse è un lasciapassare.

L’inverno, la primavera e l’estate...l’autunno. Il sole che illumina il giorno e cede il passo alla luna. Di nuovo le lucciole brillano la notte intorno al mio corpo. Sono ancora qui, io che non avrei voluto, che non avrei saputo...Sempre io.

Il mondo mi avvolge e si svolge d’intorno, su un corpo che cambia e resiste, che guarda fuori e non smette mai di vedere. Sfioro dita e carezzo palmi di mano, mi adopro per guadagnare il tempo o per provare a comprenderlo. 

Mi concentro sul respiro a occhi chiusi e rimango da sola, perché tale io sono. Come tutti, del resto, ne hai voglia a saperlo!

Sorrido davanti a ingenui espedienti: chi si aggrappa alle boe, chi si riversa sugli altri, chi sente senza ascoltare. Un pensiero che copre ogni altro, nonostante tutto e proprio per quello.

 Ognuno di noi cerca di salvare sé stesso con ciò che crede di avere. E così facendo dimentica di potere proprio perché non ha.

Timore di che, non ne provo più. C’è così poco da perdere, così tanto da cogliere. Come nei passi che sciolgo nei campi. Trovo sempre qualcosa, che siano semi, frutti o pensieri.

Braccia tese ovunque, per avvicinare o estromettere. Impressi negli occhi i sorrisi di amore, come il dolore di chi soffre, e l’indifferenza di altri. Presenza e assenza in giornate contigue: sei re e poi profugo stanco. La corona e gli stracci in un solo respiro, in una sola stessa unica vita.

L’ho visto nei sogni, l’ho toccato con le mani e col cuore. Anime salve, cantava qualcuno..Anime sole, mi viene invece da dire…

 









venerdì 23 maggio 2025

PALINDROMO

  

 
Di recente ho visto “Lo strano caso di Benjamin Button”, un film datato (2008) ma grazioso e delicato, dai temi di classico (mio) interesse: il tempo, la nascita e la morte. La vita che scorre… L’esperimento interessante proposto sta nel vederla al contrario: l’uomo nasce vecchio e pian piano torna indietro, ringiovanisce, fino a morire nella veste di neonato.
 

 Morire?  

Alla fine, che poi sarebbe un inizio, l'infante apre gli occhi sulla donna che lo cura e che ha amato per tutta la vita, sembra riconoscerla finalmente – come da voce narrante – e poi li chiude per sempre.


La parte iniziale del film pone in contemporanea la creazione di un orologio che indica il tempo al contrario: lo ha realizzato il padre di uno dei tanti ragazzi andati a morire in guerra; egli lo ha posizionato nella stazione ferroviaria, spiegando agli astanti che vorrebbe con questo far tornare indietro gli eventi affinché i ragazzi tornino indietro da quel campo di morte per vivere ancora.

Un bambino nasce vecchio.

La parte finale, quasi a evocare un diluvio di biblica memoria, mostra l’invasione dell’acqua dell’Uragano Kathrina, che lentamente invade il magazzino in cui il vecchio orologio era stato da tempo abbandonato, sostituito da un modello analogico. Il tempo è andato avanti, e le lancette del vecchio orologio ancora scorrono indietro.

Il neonato chiude gli occhi per l’ultima volta.

In questo lavoro affiora potente la sacralità della vita, che accade in modo palindromo all’interno di un percorso temporale, semplicemente accadendo. L’amore, la morte, le scoperte, il dolore, il corpo che cambia e la mente che apprende, e poi dimentica nella confusione di un non-più divenuto un non-ancora. 

 Interessante che questo strano uomo si innamori di una ballerina, espressione viva della corporeità nello spazio.

 Lei racconta il suo mondo mostrando e dicendo come la danza sia “tutta nella linea”, nell’armonia ordinata del movimento, per poi scoprire ella stessa la disarmonia, la rottura di tale linea come altra espressione emotiva e corporea di uno stesso linguaggio, un linguaggio che parla usando diversi idiomi (i nuovi studi sulla danza contemporanea, ad opera di M. Graham). Una stranezza che è naturale nel suo esser viva: ancora un andare in una direzione e nel suo opposto al contempo.  

Tutto il film va oltre il regolare e il determinato, in avanti e indietro, a partire da quel grosso orologio. Credo che il regista abbia proprio voluto dipingere questo, con un lavoro tenero, ironico, duro e delizioso: la vita non segue regole…Siamo noi che ce le infiliamo, dettando l’ordine delle lancette, cercando di disegnare una sequenza leggibile e imponendo a noi stessi dei limiti.

 Il bambino cresce in una casa di anziani che, pian piano, vanno incontro alla morte. È così che lui impara a conoscerla e a viverla per quello che è: non un nemico sociale da temere, ma il naturale proseguo di quella che definiamo esistenza. E forse è proprio questo ciò che gli consente di vivere con tale “serenità” una vita diversa dalla regola: lui, il “bambino strano”, viaggia, parte, coglie occasioni, ignora certe convenzioni, e diventa saggio.

 Riconosce il momento in cui dover andar via, si prende cura della famiglia che ha creato e si allontana, lasciando tracce che lo riporteranno alla stessa famiglia nel momento opportuno.  

Gli opposti continuano a fronteggiarsi, quasi specchiandosi nel punto di mezzo, come il Narciso davanti all’acqua cheta del lago quando incontra sé stesso innamorandosi senza speranza.

Già, come non innamorarsi della vita?

 L’amore si mostra anch’esso in modo bifronte: l’amore di una donna diventa l’amore di una madre, continuando ad essere ciò che è: semplicemente e complessamente amore.

Dall’inizio alla fine e dalla fine all’inizio due vie si confrontano: la confusione della ragazza si confronta con la moderazione dell’uomo, e poi le parti si scambiano.

 Il tempo va avanti nel nuovo orologio, ma continua a regredire nel vecchio…Vuol dire che il tempo non è: esiste l’uomo, con il suo esperire, e il suo reagire, e il suo scoprire – nel prima e nel poi. 

 Esperiamo attraverso sentieri inattesi, ci stringiamo e ci espandiamo, con la sorpresa di un bambino e la pazienza di un adulto, e siamo sempre quel bambino e quell’adulto.

 

 

 

 




 
 

lunedì 24 marzo 2025

La prospettiva?

 

Era il mio cinquantesimo compleanno, immersa in una vasca di acqua termale a 80 gradi nel mezzo di un bosco lussureggiante, in un paese lontano, a godermi la compagnia di amici imperdibili, irretita da conversazioni affascinanti, culturali, umanistiche… Qualcuno ha iniziato a parlare di Josè Saramago…

Sono trascorsi due anni da allora, e Saramago l’ho cercato, l’ho letto e lo ho amato. Come con pochi altri autori ho pianto e sorriso, mi sono stupita, ho provato fastidio e ne sono uscita sedotta.

 Ho concluso da poco la lettura de  “Le intermittenze della morte”, un testo a mio avviso curioso, simpatico, tenero e spietato…Geniale e umanissimo, come tutto ciò che di suo ho incontrato finora.

Una storia complessa, al termine della quale la morte – scritta con la m minuscola, come pretende l’interessata nel testo - si innamora della vita, tanto da disertare il proprio compito ingrato…

In questi giorni una persona vicina è venuta a mancare, con un rapido e inatteso epilogo: un invisibile pugno allo stomaco che estranea, confonde e apre mille finestre mentali. Qualcuno ha sognato di lei, che camminava con vesti eleganti.

 Il tempo, lo spazio, i passaggi…Chi rimane riflette e sta male.

Pavel Forenskij, diversi anni fa, scriveva righe consolatorie sulla prospettiva rovesciata. Parlando di arte rifletteva sulla modalità di rappresentarsi la vita:

Davvero la prospettiva esprime la natura delle cose, come pretendono i suoi fautori? (…)O invece è solo uno schema, e per giunta soltanto uno dei possibili schemi di raffigurazione, che corrisponde alla non percezione del mondo nel suo insieme, ma semplicemente a una delle possibili interpretazioni del mondo, legata fra l’altro a una ben precisa percezione e concezione della vita? (…) la prospettiva, l’immagine prospettica del mondo, l’interpretazione prospettica del mondo, è davvero l’immagine naturale che scaturisce direttamente dalla sua essenza, è davvero l’autentica parola del mondo? O è soltanto una particolare ortografia, una costruzione tra le tante, che non esclude assolutamente ortografie diverse, sistemi di trascrizione diversi, che corrispondono alla concezione della vita e allo stile di altri secoli?

(Florenskij Pavel,la prospettiva rovesciata, 2020, Adelphi, Milano, p. 20)

Il testo sottolinea con forza la differenza tra la percezione della vita e i vari sistemi (di forme, di ordine, di valori) trasmessi nel tempo da individui specifici, figli della propria storia e dalla specifica contingenza, invitando a non confondere i due piani: l’autenticità della parola del mondo e la particolare ortografia. L’uno, ci dice, non esclude l’altro: ci sono modi infiniti di percepire la vita e nessuno è giusto come nessuno è sbagliato. Soprattutto, nessuno è esclusivo.

Saramago ci descrive una morte curiosa che, provocata da un evento inatteso, inizia una ricerca attenta che la porterà al paradosso finale; Florenskij ci presenta il rovescio della prospettiva tradizionale, espresso splendidamente nelle icone della Lavra della Trinità di San Sergio; una persona muore e alcuni la vedono in sogno sorridente ed elegante: siamo prigionieri in una stanza comoda, abbiamo le chiavi della porta che apre all’esterno, e sappiamo di poterne far uso. Ma poi, dietro quella ci sta un’altra porta, che è chiusa però dall’esterno, e dobbiamo attendere che il custode la apra per vedere davvero che cosa ci sta nascondendo. 

Le nostre convinzioni, le posizioni nette, il corrimano che ci sembra tanto necessario è solo uno dei modi con cui procedere…

Basterebbe trovare il coraggio di pensare che ci sono altri modi, e la curiosità di provare a cercarli.

 Siamo noi custodi a noi stessi.





 

 


lunedì 3 marzo 2025

Brutalmente

 

Era da giorni che volevo vederlo, era da un po' che miravo ad acquistare quel biglietto, e alla fine mi sono decisa.

Dopo una lunga e difficile giornata di lavoro, con la stanchezza sulle spalle e nell’anima, ho atteso le ore 20.00 e mi sono addentrata in una piccola sala cinematografica dopo aver comprato un biglietto per The Brutalist.

Avevo letto solo poche righe di commento per non guastare la visione, evitando l’ipotetico possibile inganno del trailer: mi ero solo informata di cosa fosse il Brutalismo, quel movimento architettonico che dava il titolo al film.

Già stanca e demoralizzata per gli avvenimenti della giornata, sono stata indirizzata in una sala molto piccola, dalle poltrone rovinate, in cui regnava una aria stantia. Sola fino a pochi istanti dall’inizio del film, mi ha raggiunta un esiguo manipolo di utenti mangiatori, con le braccia colme di ciotole di popcorn, patatine e bottigliette varie.

Finalmente il buio, ma non il silenzio: denti e pop corn. Per buona parte del film. Per fare il bis dopo l’intervallo.

Mi concentro sulla visione, il volume molto alto, ma non abbastanza da coprire il ruminare degli astanti.. Gli interpreti parlano ungherese e i sottotitoli scorrono troppo velocemente sopra immagini dinamiche: sono in giallo, e non è facile coglierli. Mi chiedo se non ho sbagliato giorno: la stanchezza, un cinema di pessima qualità, una compagnia poco rispettosa, il sospetto di essere incappata anche nella giornata delle proiezioni in lingua originale, e tre ore e mezzo di visione all’orizzonte...prima di mezzanotte non se ne esce: ce la farò?

 In pochi minuti, però, l’audio suona la mia lingua...Almeno questa è andata.

In pausa dovrò ricordarmi di andare a pagare il biglietto per il parcheggio, perché il tempo della proiezione eccede quello previsto normalmente, e rischio di restare dentro: il ragazzo della biglietteria si è raccomandato: “non è detto che dopo, qui, trovi più qualcuno”.

Una serata difficile.

Assisto a una proiezione intensa e complessa, una storia pesante e grave, con attori bravissimi ed una regia magnifica. Finisce il primo tempo e controllo l’orologio: quasi non ci credo che sono quasi le 23!

 Corro a saldare il piccolo debito e al ritorno incontro i vicini di nuovo carichi di derrate alimentari. Ricomincia il convulso scricchiolio dei denti e, fortunatamente, ricomincia anche il film.  Rimango appesa fino all’ultima scena, rimango seduta durante lo scorrere dei titoli di coda. Rimarrei ancora lì, presa dalla forte emozione che sto vivendo. Ma la stanza è ormai priva di ossigeno, e la macchina è prigioniera del parcheggio deserto. La mia abitazione è lontana.

 Nonostante l’ora tarda la stanchezza si è dissolta, sostituita dal grande senso di disagio, di dolore e di ammirazione che non so dominare.  Si riaccende quella cupa ombra che mi ha accompagnata per giorni dopo il viaggio in Polonia…

Alla fine non è l’arte, non è una biografia, non è una storia: è la fatica del vivere, dell’uomo sballottato in un mondo in cui l’altro è scomodo, è sgradito, viene usato, e dove il rispetto è solo una nebbia che si impiglia in parole per poco davvero credibili. La violenza morale si fa carne nella violenza fisica: di chi esercita, e poi anche di chi subisce.

Sono giorni che ci penso. Ciò che conduce l’esistenza degli uomini non è la ragione, non è nemmeno la promessa di un guadagno: sono le emozioni, quelle che scaturiscono da quanto vissuto. E le più potenti sembrano essere proprio quelle che non sono state gestite, che non hanno ricevuto la giusta attenzione, che non hanno subito elaborazione. Rimangono lì, quegli aghi pungenti, li comprimiamo, e lasciamo che si spingano sempre più in fondo, fino a divenire invisibili. Come una piccola zecca, che si insinua nella pelle e va giù, a nutrirsi del nostro sangue, causando malattie che possono addirittura far morire l’ospite.   E intanto noi attraversiamo le nostre giornate, ci imbattiamo negli altri, svolgiamo i nostri compiti, assolviamo agli impegni e affrontiamo questioni. L’ago-zecca è sempre lì sotto, che punge, che succhia e che ammala.

E quando poi ci incontriamo, quando poi stiamo insieme, la distorsione si scontra e cozza con quella di altri. E scoppiano le guerre di ogni tipo: verbali, sociali, emotive… Fino a quelle militari.

E’ un bel parlare nei talk show, attraverso i social e dentro i bar: perdiamo l’umanità laddove non curiamo noi stessi, laddove non vediamo e non ascoltiamo i nostri bisogni primari e le nostre ferite primordiali. Per arrivare agli altri dobbiamo partire da noi. Radicalmente, dal profondo.

 Solo riconoscendo noi stessi riconosceremo gli altri, e forse, potremmo iniziare a rispettarli.







 

mercoledì 12 febbraio 2025

Notte

 

Le stelle ci osservano e inviano messaggi. Le cose accadono e non riusciamo a capire. Subiamo, a volte remissivi, a volte arrabbiati, in attesa che quanto si sta svolgendo finisca la sua corsa.

La mente acquisisce e il corpo parla.

 Lui, il corpo, è amico, non è nemico.

Distrazione fatale dovuta a quanto avviene d’intorno…
Eventi e malessere: sono obbligata a fermarmi. E in che modo, poi!
 

Ho dimenticato di leggere i segni, obliando la connessione profonda. La disegniamo all’esterno, per viverla come un evento speciale: internet non è poi questo? Connessi, con-domini, intra-esistenti. 

Lagnarsi o agire. Lagnarsi ed ANCHE agire. Un altro mattino e poi un'altra notte...

 Nella continuità del tempo variamo noi stessi, le emozioni e i pensieri. Attraversiamo sentieri e guadiamo ruscelli, lottando coi venti e coi rombi del cielo. 

Sono qui, immersa nel buio, la luna là fuori, omaggiata dal canto continuo di voci nascoste. Sembra un richiamo, sembra che quella civetta stia formulando il mio nome. Svegliati, mi dice, svegliati: la vita è dentro di te!

L'intimità di una tazza di tè: le mani sulla ceramica calda, i vapori col profumo di erbe; la saggezza dei fiori e la cura che da essa deriva.

Amarsi ed essere amati: rifletto sugli ultimi eventi, i volti amici e il tempo compiuto. Ritorno a questo corpo dolente e lo ascolto, mentre l'alba fa capolino oltre i vetri.

Un altro mattino.

Troverò di nuovo la voce per parlare a me stessa.